Tradizione operaia e anticapitalismo. Nuova sinistra e Pci nel lungo Sessantotto
p. 49-61
Texte intégral
1Le lotte di classe dell’Autunno caldo portano a maturazione quel processo di separazione nella sinistra che covava già da qualche anno. I rapporti tra la “tradizione” comunista del Pci e la nuova sinistra1 dei movimenti rivoluzionari saranno, negli anni Settanta, segnati da acerrima incomprensione e infine conflittualità. Eppure così non possono semplicisticamente descriversi gli anni Sessanta, momento in cui ancora aperte potevano sembrare le porte di un dialogo difficile ma non per questo precluso a soluzioni originali. Il marxismo critico2 degli anni Sessanta si presenta sostanzialmente come risposta a due motivi di fondo cui la tradizione comunista iniziava a non fornire più risposte convincenti: da un lato i caratteri del cosiddetto “neocapitalismo”, e cioè del contraddittorio processo di auto-razionalizzazione dei fattori produttivi – fatto questo da sempre negato dalle dottrine d’impostazione tradizionale (sovietica ma non solo)3; dall’altro la sostanziale tenuta di un modello economico che, dopo la Seconda guerra mondiale, invece di dirigersi verso una spirale di crisi paventata come “inevitabile”, sembrava proseguire inarrestabile, senza squilibri tali da mettere in discussione il sistema stesso.
2Si andava così strutturando un contesto oggettivamente ostico da ricomporre. Il Pci prima non riconobbe le potenzialità della mobilitazione sociale che si andava organizzando fuori dal partito, poi si rinchiuse in una arcigna difesa dell’assetto istituzionale del paese, relegando la sua forza sociale (di iscritti, di militanti e di internità tra la popolazione lavoratrice) a massa di manovra di una strategia volta unicamente a consolidare il ruolo di opposizione responsabile4. La rivoluzione usciva così progressivamente di scena, non solo (ovviamente) nella versione putschista-leniniana5 (d’altronde rapidamente dileguata dalle riflessioni dei Quaderni gramsciani opportunamente calibrate da Togliatti), ma anche in quella democratico-radicale della battaglia sulle “riforme di struttura”6. Eppure, tra la fine degli anni Cinquanta e per tutti gli anni Sessanta, l’idea della trasformazione radicale del quadro politico, anche dentro le fila del comunismo “ufficiale”, non era scomparsa del tutto, alimentando un dibattito che, in qualche modo, può qualificarsi come “politicamente vivo” e non unicamente accademico7. Di qui le possibilità di dialogo. Un dialogo che vedrà un suo momento culminante in un convegno organizzato dal partito presso l’Istituto Gramsci di Roma nel 1971, dal titolo: Il marxismo italiano negli anni Sessanta e la formazione teorico-politica delle nuove generazioni 8. L’ultimo – forse – tentativo del Pci di intercettare, o quantomeno capire – pur criticandone le “derive” ideologiche – la partecipazione politica degli anni successivi all’Autunno caldo.
3Che il confronto potesse poggiare su di un qualche elemento di condivisione politica è testimoniato da alcuni momenti di critica del contesto politico che abbiamo poc’anzi riferito. Lucio Libertini ad esempio, all’epoca (1971) deputato del Psiup ma di lì a poco dirigente del Pci, così accennerà ai motivi fondamentali del rafforzamento dell’estrema sinistra in quegli anni: «Dobbiamo chiederci perché sono fiorite queste posizioni [della sinistra radicale, n.d.a.], perché a questi errori sia stato aperto uno spazio nella sinistra. […] Lo spazio per queste posizioni è stato aperto da un ritardo grave nell’analisi che del capitalismo avanzato hanno fatto i partiti operai. […] Non i gruppi minoritari ma un’ipoteca neoriformista ha caratterizzato gli anni ’60 [corsivi nostri]»9. Segno che il problema, lungi dall’essere chiaro retrospettivamente, era vissuto come tale anche all’epoca.
4Se però il contesto politico italiano si presentava come oggettivamente non rivoluzionario, ed era il principale partito operaio ad accreditare una visione di fatto liquidatrice di ogni ipotesi di rottura, la spinta proveniente dai gruppi della nuova sinistra operò una torsione decisamente soggettivistica della propria azione, andando a cercare il “soggetto rivoluzionario” non più nelle “contraddizioni oggettive” del sistema produttivo (quindi nel rapporto tra capitale e lavoro salariato), ma nella volontà di rottura di nuovi soggetti sociali subalterni, prescindendo dal proprio ruolo nell’organizzazione produttiva. Un discorso a quel tempo sostenuto dalle visioni “totalitarie” del capitalismo di matrice francofortiana10, che assegnavano un’estrema capacità razionalizzatrice ad un capitalismo finalmente in grado di auto-risolvere le proprie contraddizioni. Come dirà Giuseppe Vacca criticando l’impianto soggettivista tipico della nuova sinistra, in base a queste formulazioni «l’unica contraddizione antagonistica è dunque “esterna” al complesso forze produttive-rapporti di produzione; ovvero, è una contraddizione soggettiva, la ribellione degli esclusi»11.
5Questo fatto, seppure da interpretare in relazione a quello “spazio chiuso” costituito dal capitalismo in Occidente, non poteva essere accettato dal Pci e dal mondo intellettuale ad esso vicino. Gli esclusi-ribelli venivano individuati nel processo di proletarizzazione della società italiana uscita fuori dal boom economico tra gli anni Cinquanta e primi anni Sessanta. La massificazione dell’istruzione, più in generale della cultura, produceva nuovi soggetti intellettuali, a cui mancava però il ruolo sociale, il prestigio e una funzione riconosciuta, immessi a forza nel circuito dipendente-salariato, e da cui non poteva che scaturire un’insoddisfazione che sfocerà in disponibilità alla ribellione. A teorizzarla, ovviamente; ma anche a praticarla, con coraggio. Ma se i problemi di classe potevano trovare ricezione – o quantomeno ascolto – nel Pci, così non poteva essere riguardo ai problemi del ceto intellettuale, seppure socialmente degradato. Arcangelo Leone De Castris, noto critico letterario e prestigioso esponente del Pci, così marchierà la rivolta degli “intellettuali-plebei”:
Licenziato e degradato dalla vecchia organizzazione sociale, l’intellettuale ’60 finiva col chiedere – in forme diverse, terroristiche e ribelli, angosciate e contraddittorie – cose non diverse da ciò che era il bisogno e l’essenza dell’intellettuale tradizionale, cioè il suo mandato, il suo privilegio, l’autogestione degli istituti culturali; e insieme esprimeva una confusa coscienza anticapitalistica maturata nella fase ultima e più bruciante di quel processo che decretava appunto la morte della figura sociale e dell’impiego produttivo dell’intellettuale tradizionale12.
6Era questa la posizione di un militante del Pci, seppure autorevole. Nonostante ciò, rispecchiava piuttosto fedelmente un frequente sociologismo insito nelle maglie del comunismo “ufficiale”, e cioè il tentativo di degradare le posizioni radicali confinandole ad espressioni di insofferenza piccolo-borghese.
7La proletarizzazione dei ceti medio-intellettuali del paese era il punto su cui convergevano le interpretazioni del marxismo rispetto alle insorgenze della società italiana dell’epoca. Dirà infatti Gian Mario Cazzaniga, operaista (sempre nel 1971) e successivamente membro della Direzione nazionale del Pci:
Credo ci possa essere un largo consenso sul fatto che la base sociale della sinistra extraparlamentare va ricercata nei processi di proletarizzazione di tutta una serie di funzioni sociali prima relativamente indipendenti e autonome, e in alcuni casi anche nella disgregazione di un tessuto sociale di carattere popolare che lo sviluppo capitalistico analogamente supera. In questo senso quindi forza-lavoro intellettuale come elemento prevalente, e in alcuni casi sottoproletariato urbano sono gli elementi sociali caratterizzanti della sinistra extraparlamentare13.
8Nel quadro appena evocato a venire meno è quell’idea di necessità intesa come oggettiva presenza, dentro determinati stadi di sviluppo, di contraddizioni che, nel momento stesso in cui sottopongono il sistema produttivo a crisi “inevitabili”, allo stesso tempo ne preparano il superamento. Venuto meno il determinismo di fondo del marxismo storico14 – e proprio il Pci, forte dell’azione politico-culturale gramsciana (ma anche labrioliana), è il risultato di questa lotta al determinismo15 –, ad essere privilegiata in via esclusiva è la dimensione della soggettività, della volontà rivoluzionaria:
non più diritto contro diritto, deciso dalla forza, ma direttamente forza contro forza. E questo è lo sviluppo ultimo della lotta di classe al livello più alto dello sviluppo capitalistico. […] Sul modello della società organizzata dal capitale, il partito operaio stesso non può essere che organizzazione dell’anarchia, non più dentro, ma fuori del capitale, fuori cioè del suo sviluppo16.
9Ciò che prende forma nella multiforme ma convergente elaborazione del marxismo critico degli anni Sessanta è una sorta di sociologia del potere che, nel momento in cui svaluta e relativizza le basilari categorie marxiane, sostiene il marxismo stesso sempre meno in quanto «teoria critica dell’economia politica», e sempre più come «scienza degli antagonismi sociali».
10Possiamo dire, dunque, che l’incontro del movimento operaio organizzato dal Pci e le forze della nuova sinistra, appare già negli anni Sessanta destinato a quel fallimento che poi si andrà producendo nel decennio successivo. A scontrarsi erano in primo luogo due composizioni sociali differenti: da una parte la classe operaia tradizionale che, attraverso il partito comunista, si imponeva quale soggetto egemone attorno al quale realizzare quel fronte sociale di ceti e classi differenti, nella direzione di una progressione riformatrice del capitalismo italiano, e forse anche di un suo superamento finale (il «blocco storico» di gramsciana memoria); dall’altra, una serie di nuovi soggetti sociali in fase di rapida proletarizzazione, in cui veniva negata una egemonia “obiettiva” (discendente cioè da “contraddizioni interne” del capitalismo stesso) che non fosse scaturita dall’unificazione delle volontà rivoluzionarie presenti nelle diverse avanguardie. Di fatto, il mancato incontro tra la tradizione rappresentata dal Pci e le spinte della nuova sinistra – oltre che da un insieme di pratiche politiche nettamente divergenti – è causato in via teorica dalla
incompatibilità delle filosofie che danno un’interpretazione totalizzante del “neocapitalismo”, con l’essenza della dottrina marxista-leninista. […] Nelle tematiche della “contestazione” il capitalismo si caratterizza sostanzialmente nella sua dimensione sociologico-antropologica di esercizio dispotico del potere, mentre il vincolo di dipendenza causale tra questa manifestazione del capitalismo e la contraddizione rilevata da Marx tra l’espansione del capitale e la sua capacità di erogare profitto (contraddizione nella quale si esprime l’antagonismo fondamentale tra forze produttive e rapporti di produzione) non soltanto non è mai stato seriamente tematizzato, ma non è neppure stato avvertito come importante problema teorico17.
11Nel momento di massima espressione e diffusione di questi “punti alti” della lotta di classe il quadro d’insieme sfocava (come ricorderà Luigi Bobbio nel suo libro di ricordo dell’esperienza di Lotta Continua)18, perdendo per strada i ritardi e le resistenze della società italiana e soprattutto della sua quota operaia o genericamente salariata. Le difficoltà sopraggiungevano però immediate nei momenti di riflusso o di stagnazione, scollegando quella relazione tra avanguardie politiche e classe (e tra classe e società) che pure costituiva un elemento centrale del movimento comunista storico. La crisi congiunta della nuova sinistra e del Pci dalla fine degli anni Settanta ne è una dimostrazione.
12Nonostante l’operaismo, almeno fino al ’68, non chiudesse all’ipotesi di mantenere canali di dialogo con il partito comunista, i presupposti teorici radicalmente differenti tra partito e nuova sinistra ne impedivano un’alleanza stabile o un confronto virtuoso. Era un’intera visione del mondo e del marxismo ad essere strutturalmente ridiscussa. Per Marx e il marxismo “classico” – e ancor di più nello storicismo gramsciano di matrice togliattiana – il proletariato si presentava come «erede» dello sviluppo capitalistico, da superare dialetticamente integrandone la potenzialità e sottomettendolo al controllo sociale delle ricchezze e della cultura già accumulata, per poterne disporre socialmente. L’anticapitalismo marxiano si presentava dunque come «negazione determinata» del capitalismo stesso, punto di partenza per il suo superamento. L’anticapitalismo della nuova sinistra tendeva sempre più – favorito in questo dalle reciproche chiusure e sconfessioni – a farsi «negazione indeterminata», volontà di rottura con tutto l’insieme dei rapporti politici, sociali e culturali di un capitalismo subito come totalità, dunque capace di comprendere al proprio interno tutto l’insieme dei rapporti sociali, integrandoli e infine normalizzandone la funzione critica. Una volontà di rottura radicale comprensibile, in quanto storicamente rinvenibile in altre epoche e movimenti rivoluzionari: il rifiuto totale dei rapporti tradizionali, siano essi politici o culturali, caratterizza infatti ogni movimento che si propone come radicalmente nuovo e dirompente. Si veda, in particolare, l’esperienza del cosiddetto populismo russo della seconda metà dell’Ottocento e l’attribuzione di «nichilismo» per descriverlo (una definizione in parte erronea, in parte invocata dagli stessi populisti). Eppure la presenza del Pci, ovvero di un partito già strutturato per rappresentare politicamente la volontà di trasformazione radicale della classe operaia, rappresentante storico quindi di una specifica negazione – quella del sistema produttivo capitalista – impediva in qualche modo la formazione di due negazioni concorrenti, senza che queste non deflagrassero in uno scontro intestino di grave intensità. Se la lotta anticapitalista del XIX secolo avveniva in assenza di questa esperienza di lotta accumulata e sedimentata in via organizzativa – il partito operaio – nel XX secolo, e soprattutto nella sua seconda metà pietrificata in Occidente dalle relazioni definite dalla Guerra fredda – questo problema non poteva essere aggirato senza produrre quei cortocircuiti politici che infatti definiscono la cifra della politica rivoluzionaria italiana dalla fine degli anni Sessanta ad oggi. Questo almeno, come detto, in Occidente, dove cioè più improbabile – per non dire impossibile – appariva l’alleanza popolare tra classi diverse e socialmente antagonistiche come invece si era andata presentando nelle lotte anticoloniali del Terzo mondo. Dal ’69 in avanti, la rivoluzione italiana si configura dunque come comunismo impossibile, data la presenza contestuale di “due comunismi” tra loro antitetici, a tutto vantaggio di quella ragion di Stato in cui, volontariamente o meno, venne confinato il comunismo “ufficiale”, lasciando al comunismo “eretico” il ruolo della “buona coscienza” politicamente impotente. Una parabola, questa, che si svilupperà in forma evidente nelle vicende dell’Autunno caldo del 1969.
13La mobilitazione operaia del ’69 fu anch’essa, come il Sessantotto, un fenomeno internazionale. La peculiarità del caso italiano non consiste tanto (o solo) nella radicalità, quanto nella persistenza, nel tempo, di una conflittualità che caratterizzò tutto il successivo decennio. Un’altra differenza marcata rispetto al quadro europeo fu costituita dalla composizione operaia della protesta: mentre nel nord Europa quel segmento sociale-produttivo era occupato in buona sostanza da manodopera immigrata, più ricattabile e dunque meno propensa allo scontro con la controparte datoriale (e più isolata nella società), la classe operaia italiana ancora alla fine degli anni Sessanta, e per tutti i Settanta, era inequivocabilmente “nazionale”: migrante, certo, ma dal Meridione, non da altri paesi. La convergenza di una serie di vertenze per il rinnovo contrattuale (circa quaranta), sulla scorta di una mobilitazione che per tutti gli anni Sessanta era riuscita a strappare diritti sindacali e lievi aumenti salariali, fece da innesco alla mobilitazione diffusa che, per la prima volta, non manteneva separati i diversi segmenti della protesta (lavoratori e studenti, nuovo proletariato urbano e operaio sindacalizzato, eccetera), ma sull’onda lunga del Sessantotto e della formazione dei gruppi della nuova sinistra agì da elemento unificatore. Come rilevato da Stefano Musso, «l’antiautoritarismo agitato contro l’organizzazione baronale degli atenei si poteva facilmente traslare contro la rigida disciplina produttiva imposta in stabilimenti governati con gerarchie militaresche»19. Di qui la caratteristica nuova e, tutto sommato, decisiva per valutare la diversità e l’originalità dell’Autunno caldo: la conflittualità operaia tendeva ad eccedere il piano economico-salariale, strettamente sindacale, per farsi protesta politico-sociale. La contestazione travolgeva la sua origine economica per divenire politica, sebbene in forme, linguaggi e pratiche nuove rispetto al passato. Di qui il disorientamento del Pci, da una parte solidale con le proteste, da un’altra moderatore di un conflitto che si ripercuoteva nell’assetto della democrazia liberale imponendogli una presa di posizione (presa di posizione che si tradusse rapidamente in una presa di distanza verso le proposte più radicali provenienti dalla stessa Cgil). La reazione del blocco di potere politico-padronale fu ancor più radicale: è al culmine della mobilitazione operaia, nel dicembre del ’69, che avverrà la strage di piazza Fontana e l’avvio della strategia della tensione, segnando in qualche modo una cesura delle possibilità ricettive del sistema politico (che in ogni caso ci furono: vedi lo Statuto dei lavoratori).
14L’elemento dirimente e davvero “nuovo” era costituito dalla spontaneità, ovvero l’assenza di una chiara direzione organizzata delle lotte stesse, che si sviluppavano dal di dentro della fabbrica ma dal di fuori dell’azione strettamente sindacale. E questa spontaneità operaia criticava in primo luogo l’organizzazione fordista-tayloristica della produzione, cogliendo l’occasione della trattativa salariale non più come obiettivo transitorio, ma come strumento per chiedere sempre nuovi diritti, sindacali, sociali e quindi politici. La “chiusura del contratto” non costituiva più dunque il parametro per giudicare una vertenza, ma l’occasione per rilanciare nuove vertenze, nuove agitazioni che dal posto di lavoro si spostavano nelle piazze. Una dinamica di questo tipo, se impediva al duopolio Pci-Cgil di dirigere veramente (e “verticalmente”) le mobilitazioni, costituiva per le formazioni della nuova sinistra un terreno nuovo e fino ad allora inesplorato di lotta e di conquista di nuovi militanti. La lotta sindacale si faceva immediatamente sociale e quindi politica, senza più mediazione accettabile.
15Due altri elementi interagirono saldando la protesta nella società con quella nelle fabbriche. Da un lato l’apertura di una certa parte di mondo cattolico di base, solidale con la protesta operaia, e che decretò l’allargamento del consenso della protesta stessa in fasce sempre più larghe di popolazione (e questa condivisione d’intenti si produsse soprattutto sul piano sindacale portando a confliggere modi diversi di pensare l’azione sindacale in fabbrica, con la nascita della Flm cislina). Come affermato da Sergio Bologna,
La svolta del sindacalismo cattolico ebbe un effetto analogo a quello di una diga che si rompe. […] Senza l’ondata che travolse aree cattoliche come il Veneto, la Brianza o il bresciano, l’autunno caldo non ci sarebbe mai stato o almeno non con quella dimensione e con quella potenza20.
16Dall’altro il sovrapporsi e lo scontrarsi di consumismo diffuso e condizione operaia, che suscitava nuovi bisogni sociali impedendone, con la moderazione salariale, la realizzazione effettiva. La società dei consumi e l’ingresso di ampie quote di popolazione nel circuito consumistico spiega l’alleanza di fatto che si produsse tra intellettualità piccolo-borghese scaraventata nella giovane università di massa, proletariato urbano e operaio di fabbrica, figure vittime di una potente narrazione capitalistica castrante ed esplosiva. È all’incrocio di questi elementi che si situa la divaricazione tra partito e nuova sinistra nelle fabbriche: le “commissioni interne” sottrassero potere e ruolo alla direzione sindacale inquadrata in una più complessiva strategia politica, e la rivendicazione degli aumenti salariali uguali per tutti (l’egualitarismo salariale) scompaginò i riferimenti fino ad allora prevaricanti nel sindacalismo comunista. La fine dell’ambiguità comunista si precisa esattamente nel momento in cui, di fronte alla mobilitazione e alla continua richiesta di miglioramenti salariali, il Pci decide di schierarsi a difesa di un “ordine superiore”, ovvero quel vincolo monetario che impediva di approfondire le richieste salariali, in virtù di una tenuta del sistema che andava difesa persino contro la mobilitazione della propria base lavoratrice21.
17La nuova sinistra, invece, seppe godere di un processo che una certa soggettività operaia aveva scatenato senza saperlo pienamente governare o condurre verso obiettivi specifici. Se la conquista di obiettivi intermedi costituiva la linfa della strategia politica riformistica del Pci, l’abolizione di fatto di questa mediazione (o meglio: l’abolizione del valore positivo assegnato a questa mediazione) consentì alle formazioni radicali di sfruttare questa moltiplicazione crescente di conflittualità, da scaricarsi dentro e (forse soprattutto) fuori dalla fabbrica. Un processo anch’esso di lunga durata, proveniente dalle lotte sindacali dei primissimi anni Sessanta, e che quindi si strutturava su di un terreno già preparato di latente contrapposizione tra una composizione di classe che andava cambiando e una lettura comunista di questa ferma agli anni Cinquanta, cioè di pieno monopolio delle tattiche di lotta operaie. Dall’Autunno operaio uscirono rafforzate due spinte paradossalmente contrapposte: da un lato l’internità dei gruppi rivoluzionari nella classe operaia; dall’altro il riformismo di quella che Trentin definì “stagione dei diritti”, apertasi con l’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970 e durata tutto il decennio. Da una parte i gruppi della nuova sinistra, anche nel loro rapido ripiegamento tra il ’72 e il ’73, beneficiarono di questa internità, che si riversò sia nel loro apparato militante sia nella legittimità che questi acquisirono nella gestione delle vertenze sindacali; dall’altra il Pci, anche a fronte del disorientamento complessivo, andò aumentando tanto il proprio potere nella fabbrica quanto nella società. La continua crescita elettorale del partito lungo tutta la prima metà degli anni Settanta conferma questa tenuta, sebbene cambiandone il valore politico: il partito veniva premiato come elemento di coesione sociale più che per la sua carica conflittuale. Il Pci, come ultimo argine al caos della mobilitazione, recuperava più voti “al centro” di quelli (pochi) che perdeva a sinistra. Venuta meno la stagione della mobilitazione e della conflittualità, a quel punto anche il ruolo del Pci rimase in mezzo a un guado e ne provocò il rapido ridimensionamento elettorale degli anni Ottanta, figlio di una crisi di posizionamento politico dal quale il principale partito della sinistra uscì rinforzando la sua strategia “governista” e stabilizzatrice, in una fase, però, in cui il bisogno di stabilizzazione non era vissuto più come urgente. Sebbene legato a tutt’altre ragioni, anche il percorso della nuova sinistra andò incontro a una crisi che vide nel 1977 il suo momento culminante, ma oramai “altro” rispetto alle logiche operaie e sindacali. Ma se nel ’69 potevano scorgersi i momenti di rottura tra le due sinistre, nel pieno dei Settanta la frattura era già ampiamente avvenuta e la storia della sinistra in Italia si era definitivamente scissa in due storie separate e non comunicanti.
Bibliographie
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Notes de bas de page
1 Intendiamo con “nuova sinistra” l’insieme di movimenti e gruppi della sinistra radicale sviluppatisi fuori dal Pci a partire dai primi anni Sessanta, in confronto polemico con la tradizione del movimento operaio incarnata dal comunismo “ufficiale” di derivazione sovietica. Vedi G. Bechelloni, Cultura e ideologia della nuova sinistra, Edizioni di Comunità, Milano 1973.
2 Con marxismo “critico” ci riferiamo all’insieme di posizioni marxiste in dialogo con nuove correnti politico-filosofiche quali la Scuola di Francoforte, il dellavolpismo o l’esistenzialismo sartriano.
3 Sebbene non in forma monolitica nel dibattito comunista italiano: in tal senso, cfr. L. Barca, Il meccanismo unico, Editori Riuniti, Roma 1968. Le interpretazioni del neocapitalismo costituiranno uno dei nodi attorno ai quali si formerà una “sinistra” nel Pci, contrapposta alla corrente amendoliana ancora legata all’interpretazione del capitalismo italiano risalente al III Congresso di Lione del 1926. Per un veloce quanto sintomatico confronto delle due posizioni, cfr. G. Amendola, Annunziata e il neo-capitalismo, in «Rinascita», n. 6 (nuova serie), 9 giugno 1962, pp. 3-4; R. Rossanda. Valletta e il neocapitalismo, in «Rinascita», n. 9, 30 giugno 1962, pp. 5-6.
4 Cfr. sul punto G. Sorgonà, La svolta incompiuta. Il gruppo dirigente del Pci dall’VIII all’XI Congresso (1956-1965), Aracne, Roma 2011, pp. 177-258.
5 Cfr. in tal senso, l’interpretazione del leninismo in V. Strada, Introduzione al Che fare? di Lenin, Einaudi, Torino 1979, pp. vii-xci.
6 Il “partito nuovo” togliattiano – dalla Svolta di Salerno in poi – recupera in parte le tesi elaborate dall’Internazionale comunista, soprattutto dello stesso Togliatti, della “democrazia di tipo nuovo”. Cfr. soprattutto: P. Togliatti, Sulle particolarità della rivoluzione spagnola, in Id., Sul movimento operaio internazionale, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 181-199; Id., Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 729-769.
7 Per un agile resoconto critico della tensione dialettica nel Pci degli anni Sessanta, cfr. L. Magri, Il Pci degli anni ’60, in «il manifesto» n. 10-11, 1970.
8 Istituto Gramsci, Il marxismo italiano negli anni Sessanta e la formazione teorico-politica delle nuove generazioni, Editori Riuniti, Roma 1972.
9 Ivi, pp. 207-208.
10 Per una panoramica, vedi H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999.
11 Istituto Gramsci, Il marxismo italiano negli anni Sessanta cit., p. 142.
12 Ivi, pp. 295-296.
13 Ivi, p. 179.
14 Cfr., sulla problematica del determinismo marxista, L. Vinci, 1895-1914. La prima grande crisi epistemologica del marxismo. La lezione mancata, Milano, Punto Rosso 2018.
15 Cfr. A. Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi, Roma 2014; R. Mordenti, De Sanctis, Gramsci e i pro-nipotini di padre Bresciani, Bordeaux, Roma 2019.
16 M. Tronti, La fabbrica e la società, in «Quaderni rossi» n. 2, 1962, p. 25; Id., Il piano del capitale, in «Quaderni rossi» n. 3, 1963, pp. 70-71.
17 I. Vaccarini, L’esperienza culturale del Partito comunista italiano, in «Aggiornamenti sociali», 1972, pp. 757-758.
18 L. Bobbio, Storia di Lotta Continua, Feltrinelli, Milano 1988.
19 S. Musso, Le lotte operaie e sindacali degli anni della conflittualità (1969-1980), in «Sociologia del lavoro», n. 155, 2019, p. 207.
20 S. Bologna, La memoria falsificata dell’“Autunno caldo”, in «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale», n. 49, 2019, pp. 157-167 (160).
21 Cfr. S. Bologna, Il “lungo autunno”. Le lotte operaie degli anni Settanta, Feltrinelli, Milano 2019.
Auteur
Laureato in Scienze storiche, dottorando in ‘Storia, Antropologia, Religioni’ presso la Sapienza – Università di Roma; cultore della materia ‘Movimenti e comportamenti devianti di matrice politica e religiosa’ presso l’Unint – Università internazionale di Roma; ricercatore presso l’Istituto di Studi Politici ‘S. Pio V’; redattore della Rivista di Studi Politici. Autore de Il fronte rosso. Storia popolare della Guerra civile spagnola (Red Star Press, 2014) e Pietro Secchia. Rivoluzionario eretico (Bordeaux, 2017), nonché di numerosi saggi d’interesse storico e sociologico. Collaboratore de «il manifesto» e della versione italiana de «Le Monde Diplomatique», di «Critica marxista» e della rivista online «Carmilla».
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