L’operaismo italiano dagli anni Sessanta agli anni Settanta. Continuità e metamorfosi di un fenomeno di classe
p. 3-21
Texte intégral
1L’operaismo italiano degli anni Sessanta e Settanta, benché sia al centro ormai da tempo di una ricca corrente di studi e di discussioni storico-politiche che ne hanno ricostruito in maniera approfondita le origini, gli sviluppi e il ruolo nelle lotte e nei movimenti di classe dell’epoca, continua a essere un tema complesso (anzi: complicato), sul quale non solo esistono giudizi e interpretazioni fortemente diversificate, ma di cui è persino difficile individuare con precisione i contorni. Sino a che punto, infatti, l’operaismo può essere identificato con una specifica corrente teorico-politica (quella nata attorno ai «Quaderni rossi» e a «classe operaia»), o non fu invece un fenomeno legato intrinsecamente allo sviluppo delle lotte di fabbrica e che riguardò trasversalmente un arco molto più ampio di forze e di culture del movimento operaio, a partire da quelle sindacali, come tendenza a considerare «la classe operaia e, in particolare, il proletariato di fabbrica il principale soggetto della trasformazione sociale e politica, […] per la sua centralità nell’organizzazione produttiva capitalistica»1? E quand’anche ci si voglia attenere alla prima definizione, che rapporto ci fu tra i due decenni: di continuità e di sviluppo («al di là di […] alcune differenze soggettive»2), oppure – come ha sostenuto Mario Tronti – «l’operaismo italiano […] comincia con la nascita di “Quaderni rossi” e finisce con la morte di “classe operaia”. Punto. […] Poi – si le grain ne meurt – si riproduce in altri modi, si reincarna, si trasforma, si corrompe e… si perde»3?
2Districarsi in queste discussioni è tutt’altro che semplice. E diventa ancora più complicato se si considera un fatto che può sembrare quasi paradossale, ma di cui è impossibile non tenere conto, cioè che all’epoca l’operaismo di fatto non esisteva, come categoria indicativa di un preciso campo teorico-politico; era un termine che nei movimenti di classe circolava poco o nulla, che non era oggetto di alcun dibattito o elaborazione, nel quale nessun gruppo si riconosceva e che nessuno usava per indicare la propria cultura politica, i propri programmi e le proprie basi teoriche. Fu solo verso la fine degli anni Settanta – come si vedrà più avanti – che ne venne tentata una sistematizzazione concettuale, in un contesto segnato tuttavia da divisioni ormai profonde e insanabili. Ma per il periodo precedente, soprattutto prima del biennio 1968-1969, ne esistono davvero pochissime tracce, in cui peraltro l’operaismo era ancora considerato, molto semplicemente, alla stregua di un errore di prospettiva dell’azione di classe, di un limite comprensibile forse nelle prime fasi di sviluppo dei movimenti proletari, come tendenza istintiva dei lavoratori a “fare da sé” (nella memoria storica del socialismo italiano il termine rimandava al Partito Operaio, attivo in Lombardia e in Piemonte negli anni Ottanta del XIX secolo4), ma pur sempre indicativo di immaturità politica e di semplicismo teorico. Sostanzialmente si trattava di un’accusa molto simile a quelle (più ricorrenti nelle polemiche interne del movimento operaio) di “economicismo” e di “anarcosindacalismo”.
3In questa accezione generica e polemica, l’accusa di operaismo dovette effettivamente circolare – sia pure sottotraccia – anche all’uscita dei «Quaderni rossi». Ne accennarono, entrambi respingendola, sia Raniero Panzieri, nel corso di una presentazione del primo numero della rivista avvenuta a Siena nel marzo del 19625, sia – in forma più sfumata e incidentale – Tronti in un articolo pubblicato nel terzo numero l’anno seguente6. Quelli, tuttavia, furono gli unici accenni a una querelle che, evidentemente, non interessava affatto e nella quale i redattori dei «Quaderni rossi» non avevano alcuna intenzione di farsi trascinare. D’altra parte, la rivista non era nata con particolari finalità teoriche, anche se si distinse subito per alcuni contributi di grande spessore in questo senso (l’articolo di Panzieri Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, nel primo numero, e quello di Tronti su La fabbrica e la società nel secondo), ma con un obiettivo dichiaratamente politico, legato alla forte ripresa delle lotte operaie in corso dalla fine degli anni Cinquanta e alla convinzione che fosse possibile costruire un’alternativa generale alle scelte delle organizzazioni del movimento operaio (all’epoca interamente calibrate sull’incipiente avvio della formula governativa di centrosinistra7), basata proprio sulla centralità e le potenzialità rivoluzionarie dei conflitti di fabbrica. Convinzione che peraltro in quel momento accomunava vari soggetti politici e sindacali, in particolare alcune componenti di sinistra del Partito socialista (da cui proveniva lo stesso Panzieri) e della Confederazione generale del lavoro8; tant’è vero che, com’è noto, al primo numero dei «Quaderni» collaborarono diversi sindacalisti di spicco, da Vittorio Foa, della segreteria nazionale Cgil (che firmò l’articolo di apertura, intitolato Lotte operaie nello sviluppo capitalistico9) a Sergio Garavini, segretario comunista della Camera del lavoro di Torino10.
4Ciò non di meno, è indubbio che la rivista si caratterizzasse per uno stile di lavoro, per un metodo, per un atteggiamento critico decisamente originali nel panorama politico e culturale dell’epoca, che la distinguevano chiaramente da altre riviste coeve considerate a posteriori l’espressione di una “nuova sinistra” in formazione11. Di una questione di «metodo» scrisse, nel secondo numero, Alberto Asor Rosa, riferendosi al tentativo – costitutivo, a suo dire, del progetto di «Quaderni rossi» – di intrecciare strettamente la ricerca teorica con una «finalità operativa, di lotta», che ne facesse lo «strumento di interpretazione e di saggio della realtà del mondo capitalistico e delle lotte della classe operaia, in una prospettiva di trasformazione pratica». Metodo e contenuto – aggiungeva Asor Rosa – andavano di pari passo e non potevano essere separati; la rivista era partita da alcune ipotesi di lavoro (da un lato la centralità dei conflitti nella sfera della produzione, dall’altro la «carenza» nelle organizzazioni della capacità, e forse anche nella volontà, di tradurre le lotte operaie in un progetto di alternativa al sistema), ma non ne aveva voluto fare una «neo-scolastica di marxisti puri» (frase ripresa da Tronti), bensì la base da cui partire per una loro verifica empirica, da condurre attraverso l’analisi concreta della fabbrica, delle tecniche produttive, delle modalità di impiego della forza-lavoro, dei comportamenti degli operai, delle culture politiche e sindacali delle organizzazioni. Non si trattava, insomma, di costruire una nuova teoria da contrapporre ad altre (e tanto meno di far nascere nuove formazioni politiche minoritarie che ne facessero la propria bandiera), ma di operare – nel vivo delle lotte e dei movimenti di classe – per «una completa deideologizzazione del marxismo»12.
5Verosimilmente fu proprio questa prospettiva a interessare e a colpire tanti militanti e quadri politici di base: abbandonare una visione ideologica dello scontro di classe e concentrarsi invece sull’andamento delle lotte operaie, sui loro contenuti rivendicativi e le loro forme di organizzazione, sulla loro capacità o meno di estendersi e generalizzarsi, sugli effetti che esse producevano nell’intera società, in una parola sull’«autonomia» della classe. Il che, beninteso, non implicava necessariamente la condivisione delle posizioni assunte dai collettivi di lavoro politico nati attorno ai «Quaderni rossi» (che restarono esperienze fortemente minoritarie e che peraltro, com’è noto, ebbero una vita travagliatissima: la crisi interna del 1962-1963, la conseguente secessione di larga parte dei collaboratori e la nascita nel ’64 di «classe operaia», le contraddizioni anche di quest’ultima e la sua chiusura agli inizi del ’6713), ma configurava semmai un’area di influenza trasversale a componenti diverse dei movimenti di classe, tanto a livello sindacale, quanto all’interno degli stessi partiti, in cui nel corso degli anni Sessanta circolarono ampiamente tematiche e spunti teorici riconducibili in varie forme a quel «modo di pensare politico»14 secondo il quale l’unica contraddizione davvero insanabile del sistema capitalistico consiste nel carattere antagonistico del rapporto fra capitale e lavoro, e da lì occorre necessariamente partire per comprendere l’intero sviluppo della società.
6C’erano due aspetti, in particolare, delle elaborazioni teoriche maturate a partire dai «Quaderni rossi» che risultarono straordinariamente efficaci come chiavi di lettura delle società capitalistiche avanzate. Da un lato, il tema della progressiva sussunzione da parte del capitale di tutte le relazioni sociali, cioè la tesi che «l’intera società capitalistica e la sua politica economica, urbanistica, sanitaria, culturale ecc. fossero […] modellate sul sistema di fabbrica ed avessero come scopo ultimo l’estrazione di plusvalore»15; dall’altro, il tema della sempre più marcata pianificazione del sistema, cioè la tendenza capitalistica alla programmazione dello sviluppo, al superamento dell’anarchia del mercato, a una regolazione delle dinamiche sociali in grado di controllare – entro certi limiti – anche il conflitto di classe, istituzionalizzandolo e tentando di renderlo funzionale allo sviluppo stesso16. Si trattava di spunti teorici che mettevano radicalmente in discussione la dogmatica marxista corrente (soprattutto nelle componenti comuniste del movimento operaio) e che alimentarono riflessioni originali di vario genere, sulle trasformazioni in atto in ogni sfera delle relazioni sociali. Fu particolarmente significativo, in questo senso, quanto accadde nel corso delle agitazioni universitarie immediatamente precedenti il ’68 (alle quali peraltro né i «Quaderni rossi», né «classe operaia» prestarono la minima attenzione, in quanto era loro del tutto estranea l’idea che soggetti diversi dai lavoratori salariati potessero avere un ruolo nello scontro di classe); in quelle circostanze, infatti, tra i militanti attivi nelle organizzazioni legate ai partiti di sinistra nacque un dibattito sul ruolo sociale dello studente in cui ebbero largo spazio le Tesi della Sapienza (elaborate a Pisa nel mese di febbraio del 1967 e presentate al XVI congresso nazionale dell’UGI, l’Unione goliardica italiana), nelle quali tutte le questioni relative all’università e alla formazione superiore erano considerate nel contesto dei processi di razionalizzazione capitalistica (il «piano del capitale») e gli studenti erano definiti «forza-lavoro in fase di qualificazione»17. Un’elaborazione teorica dovuta ad alcuni esponenti del gruppo pisano che pubblicava il giornale «Il Potere operaio» e che faceva riferimento, sia pure in forme assolutamente autonome, all’area di «classe operaia»18, e che risultò poi fondamentale, nel biennio 1968-1969, per tutte le componenti del movimento studentesco orientate all’intervento diretto nelle lotte operaie, giacché consentiva di considerare gli studenti non più come borghesi potenzialmente “alleati” dei lavoratori, ma come una componente a tutti gli effetti della forza-lavoro sociale.
7Non c’è dubbio, insomma, che nel corso degli anni Sessanta la cultura politica originata dai «Quaderni rossi» rappresentasse un punto di riferimento importante, né che abbia contribuito in maniera determinante a orientare alcuni settori dei movimenti sociali verso una prospettiva di carattere rivoluzionario incentrata sulle lotte operaie, più che su questioni di carattere ideologico (che pure, com’è noto, in quegli anni furono il terreno su cui si formò larga parte della cosiddetta “nuova sinistra”19). Se il Sessantotto italiano risultò molto più legato alle fabbriche e alle vicende del movimento operaio, rispetto ad altre realtà internazionali, fu proprio per la fitta trama di relazioni che negli anni precedenti si era creata fra gruppi minoritari di intervento politico nelle fabbriche, militanti delle organizzazioni politiche e sindacali tradizionali, riviste e giornali che condividevano il giudizio per cui qualsiasi ipotesi rivoluzionaria, nei paesi industriali avanzati, non poteva che nascere dalle lotte operaie. Il che, tuttavia (ed è bene ribadirlo), non implicava affatto la condivisione di un bagaglio teorico ben preciso, ma si configurava semmai come un “comune sentire”, come un’esigenza politica avvertita in settori diversi dei movimenti di classe, tutt’altro che concordi, però, sui modi per tradurla in pratica.
8Fu in quel contesto che il termine “operaismo” iniziò a comparire anche in forma pubblica (la prima volta fu forse in un articolo dell’ottobre 1965 di «Rinascita», la rivista ufficiale del Pci20), per indicare tanto la tendenza a considerare le lotte di fabbrica come il terreno su cui si giocava l’intero scontro di classe, quanto l’analisi teorica che la sorreggeva, entrambe tacciate sbrigativamente di schematismo e di semplicismo21. Quella di operaismo restava quindi un’accusa, rivolta in primo luogo ai «gruppetti del tipo di quello che fa capo a Classe operaia», ma che non risparmiava alcuni settori del Psiup e che circolava all’interno dello stesso Pci, come lamentarono alcuni quadri di base romani, secondo i quali «tra i militanti più impegnati del partito», soprattutto delle «nuove generazioni», si trattava ormai di «un problema», dal momento che con «l’accusa di operaismo» si tendeva a mettere a tacere qualsiasi critica alla linea ufficiale22. Il termine, in altre parole, iniziò in qualche modo a consolidarsi mantenendo l’originario carattere polemico e continuando anche negli anni seguenti a essere usato in maniera assolutamente superficiale (e peraltro assai di rado) per indicare fenomeni diversi: da un lato l’operaismo genericamente inteso, che andava diffondendosi in vari modi nei movimenti sociali, dall’altro l’operaismo come teoria politica e come specifica area organizzata in gruppi locali di intervento nelle fabbriche.
9È con queste ambiguità di fondo che occorre fare i conti quando si discute sul piano storico dell’operaismo, onde evitare generalizzazioni che rischiano di equivocarne fortemente il senso, in particolare per quanto riguarda la traduzione sul piano politico di quel bagaglio di elaborazioni teoriche nato agli inizi degli anni Sessanta. Sin dalle origini, infatti, nell’area militante operaista si confrontarono posizioni profondamente diverse su come agire e organizzarsi all’interno dei movimenti di classe, su quali rapporti avere con il sindacato e con i partiti, in ultima analisi su come fosse possibile declinare politicamente il tema della «autonomia» della classe operaia23. Tant’è vero che alla vigilia del Sessantotto quell’area militante risultava sostanzialmente sbandata, in particolare dopo la chiusura nel 1967 di «classe operaia», fortemente voluta da Tronti e dalla maggioranza del gruppo romano sulla base del giudizio per cui non aveva più senso proseguire l’esperienza di «un gruppuscolo minoritario […] senza nessuna capacità di intervento sulla politica in generale e sulle organizzazioni politiche»24. Una scelta drastica (e tutt’altro che condivisa), che l’ultimo numero del giornale annunciò affermando in maniera perentoria: «si torna alla classe e ai suoi movimenti passando per le sue organizzazioni», cioè sostanzialmente per il Pci25.
10Non erano affatto divergenze di carattere teorico (in tutti c’era un legame profondo con le elaborazioni sviluppate su «classe operaia» e con la sintesi fattane di recente da Tronti26), ma strettamente politiche, che in ultima analisi rimandavano alla questione di fondo attorno alla quale erano ruotate le vicende dell’operaismo sin dai primi anni Sessanta: se occorresse «un lungo lavoro nelle organizzazioni politiche e sindacali tradizionali della sinistra per cambiarne la linea politica», o se l’obiettivo fosse «organizzare autonomamente la classe»27. E in «classe operaia», a questo proposito, era sempre esistita una fortissima ambiguità, mai affrontata apertamente ma destinata inevitabilmente a esplodere28. Né fu un caso che le divergenze si approfondissero ulteriormente nel corso del 1968, a fronte di uno scenario complessivo dello scontro sociale in cui le diverse componenti dell’operaismo si trovarono su posizioni sempre più distanti e finirono con il separarsi radicalmente sul piano politico, pur continuando a condividere il medesimo bagaglio teorico.
11Emblematica di questo passaggio fu la nascita della rivista «Contropiano», ideata nel 1967 e il cui primo numero uscì nel luglio del ’68. L’intenzione era di riproporre una sede di confronto collettivo dell’area legata a «classe operaia» dopo la chiusura del giornale; fin da subito, tuttavia, la componente legata ad Antonio Negri (il principale esponente del gruppo veneto-emiliano) si trovò in totale disaccordo con il resto della redazione e se ne chiamò fuori, «per sostanziali divergenze relative alla collocazione politica della rivista»29. Divergenze che la rivista non chiariva (e non chiarì neanche nei numeri seguenti), ma che rimandavano proprio alla totale diversità di giudizio sulle prospettive dello scontro sociale in atto. Come ad anni di distanza riconobbe senza mezzi termini Asor Rosa, «la questione era se il ’68’69 apriva in Italia un periodo prerivoluzionario oppure no»30; e in merito l’atteggiamento della rivista risultava inequivocabilmente negativo, in perfetta coerenza peraltro con la scelta di lavorare all’interno del Pci, che malgrado tutti i suoi limiti era considerato lo strumento principale di cui la classe operaia disponeva, di gran lunga preferibile a qualsiasi avventura “estremistica”31.
12Ciò non di meno, il termine operaismo iniziò a circolare in forme leggermente più ampie proprio nel ’68. In parte per la forte ripresa delle lotte operaie che si verificò nel corso dell’anno e che in diverse fabbriche portò a un significativo aumento delle tensioni all’interno delle organizzazioni sindacali, con il diffondersi delle prime forme di intervento organizzato da parte di alcuni settori del movimento studentesco universitario32; ma in parte anche per l’interesse crescente verso quei fenomeni da parte della stampa, in particolare del settimanale «L’Espresso», che tra i periodici di informazione dell’epoca era senza dubbio il più attento alle vicende del movimento studentesco (e il meno rozzo e superficiale nel riferirne), grazie anche ai rapporti che vi avevano alcuni redattori, soprattutto a Roma33. La prima volta in cui il giornale parlò di «operaismo», anche se in modo un po’ incidentale, fu forse in un articolo del mese di settembre intitolato L’ottobre rosso degli studenti, nel quale si dava conto delle discussioni avvenute nel corso del convegno nazionale tenuto di recente a Venezia, a Ca’ Foscari, e si riferiva ai gruppi che in quella sede avevano sostenuto la necessità di unirsi alle lotte operaie, tra i quali citava quello romano di Franco Piperno e Oreste Scalzone34. E nei mesi seguenti diede sempre maggior spazio a quelle componenti del movimento e agli sviluppi delle lotte di fabbrica in cui essi stavano mettendo radici (nel luglio del ’69 il direttore, Eugenio Scalfari, seguì personalmente a Torino il convegno nazionale promosso dall’assemblea operai-studenti all’indomani degli scontri di corso Traiano, riferendo poi di avere avuto in quell’occasione «un lungo colloquio con alcuni dei promotori»35), contribuendo così in maniera determinante alla definizione di “correnti operaiste” per indicare i gruppi che in quel contesto lavorarono allo sviluppo delle lotte operaie in forme autonome e alla convergenza in esse del movimento studentesco36.
13Si trattava, tuttavia, di una definizione sbrigativa e un po’ impressionistica (e che non a caso sul piano storiografico risulta alquanto problematica37), giacché in realtà l’area del movimento che nel biennio 1968-1969 fece quella scelta era estremamente articolata ed esprimeva posizioni, programmi, parole d’ordine che non possono certo essere ricondotte tout court all’operaismo nel senso teorico del termine. Il che, beninteso, non sminuisce il ruolo dei gruppi che effettivamente provenivano dalle esperienze dei «Quaderni rossi» e di «classe operaia», né il fatto che in quelle circostanze essi furono effettivamente in grado di influenzare e di orientare larghi settori dei movimenti di classe, vivendo la fase della loro storia di maggior successo. Evidenzia semmai come all’epoca la categoria di operaismo continuasse a risultare ambigua e sostanzialmente mantenesse intatte le originarie valenze polemiche. Tant’è vero che nessuno dei gruppi comunemente indicati come operaisti la usava per indicare la propria cultura politica.
14Potere operaio, ad esempio, che pure dichiarava di voler continuare la «tradizione teorica e politica […] emersa dai “Quaderni Rossi” e tracciata sistematicamente da “Classe Operaia”»38 (e che peraltro era l’unico gruppo a usare il linguaggio e il bagaglio concettuale nato da quella «tradizione», considerato quindi il gruppo operaista quasi per antonomasia), in un articolo del marzo 1971 sostenne con toni durissimi che «solo l’ottusità tardocomunista, la rozzezza teorica da paleomarxisti e il fondamentale segno revisionista che l’ideologia del movimento operaio opportunista ha seminato e profondamente radicato anche dentro il movimento di classe» potevano scambiare le acquisizioni teoriche maturate dall’inizio degli anni Sessanta «per economismo e per “operaismo”»; sostenendo per contro che si trattava più semplicemente di «un “filone” della sinistra rivoluzionaria» nato «col progetto di ricostruire una strategia rivoluzionaria nei paesi a capitalismo avanzato»39. Un atteggiamento rivelatorio di quanto le posizioni teoriche del gruppo dovessero essere controverse, in realtà, anche in una parte della sua stessa area di movimento. Era emblematico, in questo senso, il caso di Lotta continua, che per quanto condividesse con Potere operaio molti elementi di giudizio e di analisi politica, nonché un percorso di formazione per alcuni versi analogo (in cui pesava anche il comune legame alla «tradizione operaista»40), ne criticò spesso duramente la cultura politica, che arrivò persino ad accusare di «un vuoto teorico assoluto» per quanto riguardava «delle ipotesi sulla rivoluzione»41. Potere operaio, in altre parole, secondo Lotta continua era vittima della propria «matrice “operaista” ed economicista», che lo portava a sottovalutare l’importanza degli aspetti di soggettività rivoluzionaria contenuti nelle lotte operaie42.
15Non stupisce affatto, pertanto, che la categoria di operaismo continuasse a non essere oggetto di alcuna riflessione critica, né di alcun tentativo di sistematizzazione teorico-politica, e fosse considerata – nella migliore delle ipotesi – una forma di «volgarizzazione corrente»43. Non ve n’era alcuna traccia, se non del tutto incidentale, neanche nei primi seri tentativi negli anni Settanta di dare conto delle culture politiche delle sinistre rivoluzionarie44. Verosimilmente fu solo nel 1977 che si verificò una svolta, in occasione di un convegno di studi organizzato a Padova nel mese di novembre dall’Istituto Gramsci, i cui atti furono pubblicati l’anno seguente con il titolo Operaismo e centralità operaia. L’iniziativa nasceva dal Pci e vide la partecipazione di Accornero, di Cacciari e di Tronti, le cui relazioni costituirono in effetti i primi passi verso l’articolazione di un giudizio complessivo sull’argomento (quella di Cacciari, in particolare, intitolata Problemi teorici e politici dell’operaismo nei nuovi gruppi dal 1960 a oggi, risultava decisamente acuta nel discutere le questioni storiche e teoriche di fondo di quelle esperienze), ma il convegno aveva anche delle finalità politiche assolutamente trasparenti, nel contesto dell’epoca, come risultò chiaramente dalla relazione introduttiva e dalle conclusioni di Giorgio Napolitano, in cui le elaborazioni teorico-politiche dell’operaismo erano attaccate in maniera durissima e indicate come una delle matrici da cui avevano avuto origine tanto il dilagare dal biennio 1968-1969 di un «pansindacalismo» che costituiva un serio ostacolo a qualsiasi possibilità di soluzione della crisi economico-sociale del paese, quanto un estremismo politico che andava scivolando sempre più verso l’uso della violenza e il sostegno al terrorismo45.
16Al di là dei suoi caratteri di strumentalità politica, che pure non erano irrilevanti, il convegno risultò significativo soprattutto per ciò che rivelava delle profonde divaricazioni – anche teoriche – createsi nel campo operaista dopo il biennio 1968-1969. Non a caso i relatori, che avevano avuto tutti e tre, anche se in forme diverse, un ruolo di primo piano in «classe operaia», nel fare un bilancio di quell’esperienza per un verso rimproveravano ai gruppi rivoluzionari di averne tratto delle conseguenze improprie ed erronee, sprofondando in una serie di contraddizioni gravissime (il riferimento era soprattutto alla dilatazione del concetto di “composizione di classe” sino a comprendervi figure sociali slegate dalla fabbrica, perdendo così di vista la centralità operaia), per l’altro sostenevano che l’operaismo degli anni Sessanta avesse avuto obiettivamente un limite di fondo, consistente nella sottovalutazione della sfera politica e della sua autonomia (anche dai comportamenti di classe). Nessuno di loro negava l’importanza di quella stagione di elaborazioni, ma al tempo stesso tutti sembravano attribuirle sostanzialmente il valore di un’opera di rinnovamento delle culture tradizionali del movimento operaio, non certo quello di una possibile alternativa in termini di organizzazione, di programmi, di prospettive politiche complessive. L’operaismo, in altre parole, aveva fornito uno strumentario analitico fondamentale, ma la cui traduzione sul piano pratico non era affatto scontata46.
17Fu così che la categoria di operaismo iniziò a uscire dal limbo in cui era rimasta sospesa sino a quel momento. Nel 1979 Negri pubblicò un libro/intervista in cui il termine compariva esplicitamente nel sottotitolo e che mi sembra plausibile volesse essere una replica alle tesi avanzate nel convegno47. E da quel momento la categoria si diffuse rapidamente negli studi e nelle discussioni pubbliche, perdendo inoltre l’originaria valenza negativa ed entrando invece a pieno titolo nel lessico storico-politico e sociologico, anche se in realtà continuò a essere usata per riferirsi, a seconda dei contesti, a due fenomeni diversi, benché in qualche modo intrecciati tra loro: da un lato il campo teorico nato dai «Quaderni rossi» e da «classe operaia», dall’altro un insieme complesso di comportamenti conflittuali e di contenuti rivendicativi che si manifestavano nelle lotte e nei movimenti di classe, considerato alla stregua di una forma di «operaismo sindacale»48.
18Tutto ciò, d’altra parte, accadeva negli stessi anni in cui si consumò la sconfitta della classe operaia e, con essa, si avviarono inesorabilmente tanto il tramonto delle culture incentrate sulla centralità del conflitto sociale, quanto la dissoluzione delle formazioni politiche che sulla forza dei movimenti di classe avevano basato i propri progetti di rivoluzionamento, comunque inteso, della società. Anche l’operaismo, teorico e politico, ne fece le spese, non solo per le repressioni cui fu sottoposto49, ma anche (anzi: principalmente) per il venir meno delle condizioni storiche che l’avevano fatto nascere e crescere per circa un ventennio. E se è vero che la storia non si ripete mai uguale, è difficile immaginarne il risorgere. Meglio, forse, considerarlo un grande fenomeno di un’epoca straordinaria. Parce sepulto.
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Notes de bas de page
1 G. Polo, Operaismo, in Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo, diretta da Aldo Agosti, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 509.
2 G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero, Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2002, p. 68. Cfr. anche il più recente G. Roggero, L’operaismo politico italiano. Genealogia, storia, metodo, DeriveApprodi, Roma 2019.
3 M. Tronti, Noi operaisti, in G. Trotta, F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», DeriveApprodi, Roma 2008, p. 7. Mi sembra plausibile, peraltro, ritenere che la polemica di Tronti fosse rivolta anche contro S. Wright, Assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Alegre, Roma 2008.
4 Cfr. ancora G. Polo, Operaismo cit., p. 509, dove del vecchio Poi si ricordano la «composizione esclusivamente proletaria» (vi potevano aderire solo le associazioni composte esclusivamente da lavoratori salariati) e il «programma fortemente economicista».
5 Cfr. R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in «Quaderni piacentini», a. VI, n. 29, gennaio 1967, pp. 43-65 (i riferimenti all’operaismo sono alle pp. 58-62). Il testo, trascritto da una registrazione fonica e pubblicato con una nota introduttiva di Vittorio Rieser, fu poi riproposto in R. Panzieri, La ripresa del marxismo leninismo in Italia, introduzione e cura di Dario Lanzardo, Milano, Sapere 1973, pp. 240 sgg. Le argomentazioni di Panzieri erano tutte rivolte a sottolineare il carattere politico generale (non sindacale o, appunto, “operaistico”) delle proposte lanciate dalla rivista.
6 M. Tronti, Il piano del capitale, in «Quaderni rossi», n. 3, giugno 1963, p. 66: «è inutile correre a tirar fuori dagli archivi parole magiche […]. L’operaismo può anche essere un pericolo reale, quando gli operai salariati sono secca minoranza in mezzo alle classi lavoratrici. Ma dentro un processo che tende a ridurre ogni lavoratore ad operaio?». L’articolo fu poi rifuso dall’autore in M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Roma 1966.
7 Sul quadro complessivo socio-economico e politico-istituzionale, cfr. G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2005.
8 Cfr. F. Loreto, La sinistra socialista operaista e la questione sindacale, in E. Bartocci, C. Torneo (a cura di), I socialisti e il sindacato. 1943-1984, Viella, Roma 2017.
9 L’articolo era già comparso, con un titolo diverso (Lotte operaie e democrazia socialista. Contributo a una discussione), nella rivista socialista «Mondo nuovo», n. 25, 1961.
10 Un’ampia e pressoché esaustiva ricostruzione della preparazione e degli esordi dei «Quaderni rossi» è in G. Trotta, F. Milana, L’operaismo degli anni Sessanta cit., pp. 127 sgg.
11 Cfr. A. Mangano, Le culture del Sessantotto. Gli anni sessanta, le riviste, il movimento, Centro di documentazione di Pistoia, Fondazione Micheletti, Pistoia – Brescia 1989, pp. 45-49.
12 A. Asor Rosa, Il punto di vista operaio e la cultura socialista, in «Quaderni rossi», n. 2, aprile 1962, pp. 118-119 e 123-124. Sullo stretto intreccio, tanto nei «Quaderni rossi» quanto in «classe operaia», fra ricerca teorica e attività pratica cfr. S. Bologna, L’operaismo italiano, in L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. II: Il sistema e i movimenti (Europa: 1945-1989), a cura di Pier Paolo Poggio, Jaka Book e Fondazione Micheletti, Milano – Brescia 2011, pp. 205 sgg.
13 Cfr. ancora G. Trotta, F. Milana, L’operaismo degli anni Sessanta cit. A determinare la crisi dei «Quaderni rossi» fu sostanzialmente la diversità dei giudizi sulle lotte alla Fiat dell’estate 1962 e sui fatti di piazza Statuto: laddove per Panzieri e alcuni dei redattori, soprattutto torinesi, si era trattato di una pesante battuta d’arresto per il movimento operaio, per altri (le componenti che diedero poi vita a «classe operaia») si trattava invece della conferma di una distanza sempre più abissale fra la classe e le sue organizzazioni storiche, che rendeva ancora più urgente «procedere verso un’identità politica e organizzativa più chiara e definita della rivista e dei gruppi, che ad essa facevano riferimento» (M. Scavino, Raniero Panzieri, i «Quaderni rossi» e gli “eredi”, in F. Chiarotto (a cura di), Aspettando il Sessantotto. Continuità e fratture nelle culture politiche italiane dal 1956 al 1968, Accademia University Press, Torino 2017, p. 246). Da questa diversità di giudizi trapelavano però anche divergenze teoriche tutt’altro che irrilevanti, sul significato da attribuire ai comportamenti spontanei degli operai (come il sabotaggio della produzione) e più in generale su cosa dovesse intendersi per «autonomia» della classe. Per il punto di vista in merito di «classe operaia», si veda il famoso articolo di apertura del n. 1, febbraio 1964, intitolato Lenin in Inghilterra e firmato da Tronti, in cui si affermava: «Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un errore. Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe operaia. A livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria produzione» (anche questo articolo fu rifuso in M. Tronti, Operai e capitale cit.). Il dissenso di Panzieri su questo punto di vista (che non considerava neanche una teoria politica, ma un’astrazione metafisica, «una filosofia della storia, una filosofia della classe operaia») era stato totale, fin dal 1963; cfr. R. Panzieri, Intervento alla riunione della redazione «Quaderni Rossi – Cronache operaie» del 31 agosto 1963, a cura di Vittorio Rieser, in «Quaderni piacentini», n. 29, gennaio 1967, pp. 64-66 (poi in Id., La ripresa del marxismo leninismo in Italia cit.).
14 M. Tronti, Noi operaisti cit., p. 7.
15 S. Bologna, L’operaismo italiano cit., p. 211.
16 Fondamentale, in questo senso, il saggio di R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione, in «Quaderni rossi», n. 4, luglio 1964, pp. 257-288 (poi in Id., La ripresa del marxismo leninismo in Italia cit.), nel quale si sottolineava come la cultura marxista fosse rimasta sostanzialmente prigioniera di una visione del capitalismo legata alle sue prime fasi storiche di sviluppo, segnate proprio dai ricorrenti squilibri di mercato (un limite che, secondo Panzieri, in parte era presente anche in Marx).
17 Le Tesi, pubblicate all’epoca in versioni parzialmente differenti su alcune riviste, sono riprodotte e contestualizzate in G. Borghello (a cura di), Cercando il ’68, Forum, Udine 2012, pp. 249-252. Sull’importanza della tesi degli studenti come forza-lavoro in formazione nell’ambito del pensiero cosiddetto “operaista”, rimando a M. Scavino, Potere operaio. La storia. La teoria, vol. I, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 52-53.
18 Sul gruppo, cfr. R. Massari, Adriano Sofri, il ’68 e il Potere operaio pisano, Massari, Bolsena 1998, dov’è compresa anche una ricostruzione dell’occupazione della Sapienza, a cura di Rina Gagliardi. Che le Tesi risentissero «delle teorizzazioni dei “Quaderni rossi” e di “Classe operaia”» è sottolineato anche da F. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto. Sinistra e sinistrismo dal 1956 agli anni ottanta, Rubbettino, Soveria Mannelli 1993, vol. I, p. 221. Il principale ideatore e autore materiale del documento è considerato Gian Mario Cazzaniga. Va sottolineato comunque che i rapporti del gruppo pisano con «classe operaia» erano alquanto generici e non implicavano affatto l’adesione al progetto del giornale.
19 Si veda N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, nuova edizione a cura di Sergio Bianchi, Feltrinelli, Milano 1997, in particolare i capitoli 3 e 4, in cui si dà conto del carattere estremamente articolato di quel fenomeno, in cui inizialmente avevano un ruolo fortissimo le formazioni politiche marxiste-leniniste, che si richiamavano alle posizioni del Partito comunista cinese, e le suggestioni derivanti dalle guerriglie sudamericane.
20 Cfr. A. Accornero, “Operaismo” sterile. Agitazione e vuoto politico del gruppo di “Classe operaia”, in «Rinascita», a. XXII, n. 42, 23 ottobre 1965, pp. 7-8. Accornero (1931-2018) era un personaggio di rilievo nel partito, in virtù anche del suo passato di operaio specializzato e di attivista sindacale, ma paradossalmente all’epoca era uno stretto collaboratore del gruppo romano di «classe operaia». Firmava i propri articoli con degli pseudonimi e per sua stessa ammissione viveva il rapporto con il gruppo quasi in condizioni di «clandestinità» (cfr. la sua testimonianza in G. Trotta, F. Milana, L’operaismo degli anni Sessanta cit., pp. 648 e 651).
21 Nell’articolo di Accornero l’accusa di fondo all’operaismo era di considerare la società capitalistica come una realtà composta solo di operai e di padroni: «Ma non è così, e quindi per fare politica e guidare le masse ci vuole altro che uno schema semplice, chiaro e lineare come un teorema. […] Non vi sono soltanto il processo di produzione e i rapporti di produzione, i quali sono il perno, non la ruota. L’essenza non è l’essere…».
22 Partito e classe operaia (Risposta di Emanuele Macaluso alle lettere di alcuni compagni), in «Rinascita», a. XXII, n. 45, 13 novembre 1965, pp. 7-8. Le lettere pubblicate e la lunga replica di Macaluso si riferivano al precedente articolo di Accornero.
23 Va sottolineato, peraltro, che tutto ciò si legava al rifiuto – comune a tutte le componenti dell’operaismo – di configurarsi come un soggetto minoritario su basi politico-ideologiche e alla scelta di operare invece «ai livelli di classe», cioè attraverso la partecipazione attiva alle lotte e alle dinamiche organizzative del movimento operaio.
24 G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero (a cura di), Gli operaisti. Autobiografie di cattivi maestri, DeriveApprodi, Roma 2005, p. 296.
25 Cfr. [Giuliano Artioli], Un salto politico da preparare, in «classe operaia», a. III, n. 3, p. 5. Artioli era uno pseudonimo usato da Aris Accornero. Dalla conseguente diaspora dei gruppi locali si era salvata solo l’esperienza veneta, incentrata sull’intervento negli stabilimenti del polo petrolchimico di Porto Marghera e che pubblicava il giornale «Potere operaio», fondato in collaborazione con alcuni collettivi dell’area emiliana (Modena, Ferrara e Bologna). In merito cfr. M. Scavino, Potere operaio cit., pp. 70-72.
26 Cfr. M. Tronti, Operai e capitale cit. Il volume raccoglieva alcuni articoli già pubblicati negli anni precedenti (in «Mondo nuovo», nei «Quaderni rossi» e in «classe operaia»), accompagnati da una corposa Introduzione e da un nuovo importante saggio, intitolato Marx, forza-lavoro, classe operaia, scritto per l’occasione.
27 F. Billi, Dal miracolo economico all’autunno caldo. Operai ed operaisti negli anni sessanta, in C. Adagio, R. Cerrato, S. Urso (a cura di), Il lungo decennio. L’Italia prima del 68, Cierre, Verona 1999, p. 137.
28 Va detto peraltro che Tronti e il gruppo romano in realtà non avevano mai fatto mistero di considerare il Pci come l’unico punto di riferimento credibile per un discorso sull’organizzazione di classe, riuscendo sostanzialmente a imporre questa linea al giornale. Per un’analisi approfondita della posizione di Tronti, si veda F. Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti, Mimesis, Milano – Udine 2014, pp. 67 sgg.
29 L’annuncio fu pubblicato laconicamente nel n. 2/1968, a p. 295, in coda a un saggio di Negri intitolato Marx sul ciclo e la crisi: note. Su «Contropiano», la cui vicenda è pressoché ignorata dagli studi sull’operaismo teorico, cfr. G. Bechelloni (a cura di), Cultura e ideologia della nuova sinistra. Materiali per un inventario della cultura politica delle riviste del dissenso marxista degli anni sessanta, Edizioni di Comunità, Milano, 1973, pp. 583-561 (la parte di Cronaca politica era opera di Laura Pennacchi Brienza).
30 Si veda la sua testimonianza in G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero, Gli operaisti cit., p. 61. Identico il giudizio di M. Cacciari, Un Sessantotto di classe, in «Micromega», n. 2, 2018, pp. 20-21 (Cacciari sino a quel momento aveva fatto parte del gruppo veneto di «Potere operaio»).
31 Cfr. M. Tronti, Estremismo e riformismo, in «Contropiano», 1/1968, pp. 46 sgg. Il principale motivo di dissenso riguardava l’atteggiamento verso il movimento studentesco come nuovo soggetto sociale e politico di massa; malgrado le iniziali perplessità e riserve, infatti, il gruppo veneto-emiliano di «Potere operaio» aveva iniziato proprio in quel periodo a lavorare per coinvolgere parte del movimento universitario nelle lotte operaie del Petrolchimico di Marghera (in merito rimando a M. Scavino, Potere operaio, vol. I cit., pp. 89 sgg.).
32 Cfr. M. Scavino, Dalla statua di Marzotto a Corso Traiano, in M. Grispigni (a cura di), Quando gli operai volevano tutto, manifestolibri, Roma 2019, pp. 45 sgg.
33 Interessante in merito la ricostruzione di Paolo Mieli, Militante e giornalista, in «Micromega», 2018, n. 1, pp. 56 sgg.
34 L’articolo, firmato da Giampaolo Bultrini e Mino Monicelli, comparve nel n. 38, 22 settembre 1968, pp. 4-5.
35 E. Scalfari, Una corrida per l’autunno, in «L’Espresso», a. XV, n. 31, 3 agosto 1969, p. 5.
36 Particolarmente significativo, in questo senso, l’Atlante della contestazione, curato da Paolo Mieli e Mario Scialoja, che il settimanale pubblicò con il n. 48, 30 novembre 1969.
37 Si veda ad esempio F. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, vol. I cit., p. 17: «Operaisti e maoisti: in questi due filoni fondamentali si è soliti incasellare la genealogia dell’estremismo a partire dai primi anni sessanta. La schematizzazione, pur utile e indicativa, non basta: l’area del dissenso è assai più vasta».
38 Statement by Potere Operaio on the jailing of its editor, p. 1 (una copia del documento, databile alla fine del 1969, è conservata nell’archivio del Centro studi Piero Gobetti di Torino, Fondo Marcello Vitale, subfondo Mario Dalmaviva, unità archivistica 9, sottofascicolo 16).
39 Il nostro punto di vista, in «Potere operaio», a. III, n. 37, 5-19 marzo 1971, p. 6. Nell’articolo le acquisizioni teoriche di quel filone di pensiero erano così sintetizzate: «la ridefinizione del rapporto lotta economica/lotta politica, l’analisi delle modificazioni nella struttura dello Stato dopo il ’29, delle modificazioni nella composizione politica di classe operaia dopo il grande ciclo di lotte a livello internazionale avvenuto intorno al ’20» e il «concetto di Stato pianificato».
40 L. Bobbio, Lotta continua. Storia di un’organizzazione rivoluzionaria, Savelli, Roma 1979, p. 5.
41 Potere Operaio. Teoria della «ricchezza» e miseria della «teoria», in «Lotta continua», a. III, n. 13, 25 luglio 1971, p. 16. L’articolo sosteneva anche che «i veri ispiratori delle teorie di Potere Operaio» fossero i redattori di «Contropiano».
42 Cfr. La Fiat oltre il maggio francese, in «Monthly Review», n. 7, luglio 1979. L’articolo, che costituiva l’introduzione ai verbali di alcune riunioni dell’assemblea operai-studenti di Torino, era anonimo, ma l’autore era Guido Viale, come si evince dalla sua ripubblicazione, con il titolo Cinquanta giorni di lotta alla Fiat, nel volume G. Viale, S’avanza uno strano soldato, Edizioni di Lotta continua, Roma 1973 (la frase citata è a p. 58).
43 Così nella Presentazione al volume di Aa. Vv., Operai e stato. Lotte operaie e riforma dello stato capitalistico tra rivoluzione d’Ottobre e New Deal, Feltrinelli, Milano 1972, p. 11. È presumibile che gli autori fossero Sergio Bologna e Antonio Negri, curatori della collana inaugurata con quell’opera.
44 Si veda ad esempio G. Bechelloni (a cura di), Cultura e ideologia nella nuova sinistra cit., che pure dedicava due corposi studi a «classe operaia» e a «Contropiano».
45 Cfr. F. D’Agostini (a cura di), Operaismo e centralità operaia, Editori Riuniti, Roma 1978. Al convegno intervennero anche due ex dirigenti nazionali di Potere operaio, Sergio Bologna e Alberto Magnaghi, che tentarono timidamente di esprimere un punto di vista diverso da quello che vi dominava.
46 Credo sia importante sottolineare, a questo proposito, che in effetti – all’indomani del biennio 1968-1969 – le componenti rivoluzionarie dell’operaismo si confrontarono con problemi e tematiche che andavano al di là di quanto era stato elaborato nel corso degli anni Sessanta. L’operaismo classico, infatti, aveva sempre ragionato sulla capacità delle lotte operaie di inceppare il piano del capitale, cioè di mettere in crisi il sistema, non su come ci si sarebbe comportati in una crisi di carattere rivoluzionario.
47 Cfr. A. Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di Paolo Pozzi e Roberta Tomassini, Multhipla, Milano 1979.
48 L’espressione ricorreva, ad esempio, nel saggio di A. Accornero, Sindacato e rivoluzione sociale, pubblicato nel 1981 nella rivista «Laboratorio politico», alle pp. 5-34. Secondo Accornero si trattava della manifestazione di un’egemonia esercitata nei fatti dagli operai comuni (gli operai massa) sull’intera classe operaia, industriale e non. Un’egemonia che nel lungo periodo, a suo giudizio, non era sopportabile dal sistema e neanche dalle organizzazioni sindacali.
49 Tra l’aprile e il dicembre del 1979, com’è noto, il vecchio quadro dirigente di Potere operaio fu arrestato, pressoché al completo, con l’accusa (fortemente ridimensionata nei processi che ne seguirono) di essere stato sin dai primi anni Settanta tra i principali promotori della lotta armata. Cfr. G. Palombarini, 7 aprile. Il processo e la storia, Arsenale cooperativa, Venezia 1982.
Auteur
(Torino, 1954) ha lavorato come ricercatore di Storia contemporanea presso il Dipartimento di studi storici dell’Università di Torino. I suoi principali campi di interesse sono la storia del movimento operaio e la storia della conflittualità sociale negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. Le sue pubblicazioni più recenti sono: Potere operaio. La storia, la teoria (DeriveApprodi, Roma 2018); L’operaismo italiano e il ’68 (in Forme e metamorfosi della rappresentanza politica. 1848, 1948, 1968, a cura di P. Adamo, A. Chiavistelli, P. Soddu, Accademia University Press, Torino 2019); Dalla statua di Marzotto a Corso Traiano. La ripresa della conflittualità operaia, (in Quando gli operai volevano tutto, a cura di M. Grispigni, manifestolibri, Roma 2019).
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