Premessa. Da Porto Marghera a Torino: la fucina dell’Autunno caldo
p. XXI-XXXVI
Texte intégral
Questo testo è stato elaborato a partire dalla testimonianza di Antonio (Toni) Negri , rilasciata a Marie Thirion, al quale abbiamo chiesto di raccontare la sua esperienza delle lotte dell’Autunno caldo, prima nel Veneto e poi a Milano e a Torino. Le domande che gli erano state fatte vertevano sulle differenze fra questi contesti industriali, sulle forme e gli obiettivi delle lotte del ’69 e sulle specificità di questa sequenza politica rispetto alla Francia.
1Nel ’69 vivevo a Venezia e lavoravo ormai da una decina d’anni con i compagni operai nel Polo chimico di Porto Marghera dove avevamo costruito un’assemblea operaia che aveva trovato il suo apice di forza nel ’68 con un enorme sciopero che aveva mobilitato circa trentamila operai1. Ed era dai primi anni Sessanta2 che mettevamo in atto questo sforzo di organizzazione dell’autonomia operaia – in quel momento ci chiamavamo, con un piccolo giornale locale, Potere operaio veneto di Porto Marghera. Questa avventura di organizzazione autonoma si è sviluppata appunto in maniera estremamente ampia, vincendo sulle difficoltà di una mobilitazione, di un’organizzazione, in una zona nella quale era assente una grande tradizione sindacale. Il Veneto era fuori dal triangolo industriale. Oggi il Veneto è probabilmente una delle regioni, o la regione, al centro delle capacità produttive del Nord Italia. Allora, era una regione fondamentalmente agricola, il livello politico era bloccato da un’organizzazione cattolica parrocchiale ampia ed efficace. Nell’Università di Padova in cui ero professore ordinario dall’inizio degli anni Sessanta, il controllo del sapere era ampiamente imposto3. E dunque, nel Veneto, organizzammo questa grande avventura – in pochissimi inizialmente – che crebbe attraverso una serie di lotte che man mano diventarono lotte organizzate direttamente dagli operai4. Si costruì un gruppo dirigente di intellettuali operai a Porto Marghera, che credo facesse invidia al Partito comunista italiano e al sindacato nazionale. Nel lavoro che si faceva, non c’era una reale distinzione tra noi e gli operai. Noi venivamo da fuori, ma avevamo imparato cosa era la vita operaia, molti di noi avevano esperienze comuniste di famiglia. L’Italia è un paese strano dove queste esperienze politiche famigliari hanno una lunga memoria. Spesso si trattava di famiglie passate attraverso il fascismo, la repressione, la sofferenza dell’antifascismo. Ci fu dunque questa continuità presente in tutto il nostro lavoro, viveva ancora un ideale di resistenza armata contro il fascismo che era stata condotta nel Veneto in maniera estremamente larga e pesante, fino al ’45.
2Questo era dunque il lavoro che facevamo io e i miei compagni: facevamo Potere operaio veneto, poi divenne veneto-emiliano, perché avevamo allargato e diffuso la nostra capacità di intervento su altre fabbriche chimiche, in particolare sul polo ferrarese. E poi su altre fabbriche, chimiche e no, nel comprensorio bolognese e in quello modenese, dove avevamo sperimentato anche lì dei momenti di scontro e di espressione di forza estremamente interessanti5.
3L’altro luogo nel quale lavoravo in quel periodo era il vero triangolo industriale – Milano, Torino, Genova – ed ero impegnato soprattutto a Milano dove rimanevo in contatto con alcuni compagni, Sergio Bologna, Alberto Forni, Mauro Gobbini, usciti anche loro da «Quaderni rossi» e da «classe operaia»6, e che avevano continuato a tenere in piedi dei poli minoritari ma estremamente importanti di analisi e di intervento sull’evoluzione e le trasformazioni di quella che chiamavamo la «composizione di classe»7. In quel periodo continuava la trasformazione del regime industriale, delle sue forme di produzione, della sua «composizione tecnica», del regime delle macchine, del modo di produzione, e d’altra parte si modificava anche la «composizione politica» della classe operaia, vale a dire l’atteggiamento che le forze operaie avevano nei confronti di questa trasformazione e di tutto quell’ambaradan di organizzazione sindacale e politica che gli stava attorno. Era appunto su questo rapporto che puntavamo per riconoscere la crisi o la stabilità di una situazione operaia e la possibilità di lotta.
4Facevamo «con-ricerca» – vale a dire ricerca assieme agli operai – per comprendere, di fronte all’organizzazione del lavoro, all’organizzazione tecnologica, quali fossero i punti deboli di questa organizzazione, i luoghi e i momenti nei quali fosse possibile aprire lotta. Aprire lotta su cosa? Noi siamo dei marxisti, eravamo – e lo siamo – operaisti, quindi per noi la lotta non è mai vuota, non è mai lotta per la lotta, è sempre lotta per qualche cosa. E gli operai non hanno mai lottato perché gli piaceva farlo. Si fa fatica a lottare, è pericoloso, si può finire in galera, si può essere licenziati, si può morire lottando. Quando si sa questo, si sa anche che quando si lotta anche su piccole cose, si lotta per qualche cosa, si lotta per il salario, e poi si lotta anche per la libertà, e sempre si lotta per distruggere il nemico. Ed è sempre trovare questa motivazione della lotta che è entusiasmante, se volete considerare la cosa da un punto di vista teorico. Quando c’è teoria politica, dal punto di vista operaio, c’è perché è completamente dentro la militanza, dentro la lotta – questo è un altro significato di «con-ricerca».
5Scoprire la composizione politica significava scoprire quel momento di crisi, di rottura, di spaccatura col comando padronale a partire dal quale si apriva la potenza di massa degli operai. Perché naturalmente nel nostro discorso guardavamo dall’interno di un movimento di massa, non cercavamo eroismi individuali, ragionavamo solo in termini di grandi numeri. A Milano si fece allora una grande esperienza di con-ricerca, assai generalizzata. La prima esperienza la si fece attorno alla Pirelli e poi soprattutto tra i tecnici di una grande fabbrica, la SNAM Progetti, una fabbrica di produzione di strutture tecnologiche per l’Eni, l’azienda petrolifera8. Soprattutto fra questi tecnici si realizzò un grande passaggio in avanti nel nostro discorso – dall’analisi della forza-lavoro al lavoro cognitivo, alla forza invenzione, e ad una nuova concezione del lavoro produttivo intellettuale. Fu un enorme passaggio in avanti del nostro discorso, subordinato rispetto all’insieme di esperienze condotte attorno all’operaio-massa, ma che nutrirono il discorso operaista proprio in quegli anni.
6C’era stato anche il Sessantotto prima del ’69. Il Sessantotto: non soltanto per la lotta di Porto Marghera e per le altre lotte anticipatrici che allora si ebbero, ma caratteristico in Italia anche per una rivolta studentesca molto diversa da quella avvenuta sia in Francia che in Germania, nel senso che gli obiettivi studenteschi erano più o meno gli stessi (quella di una lotta anti-autoritaria e di una trasformazione dei luoghi del sapere), ma la direzione, il senso, delle lotte studentesche in quel momento in Italia andò verso le fabbriche. Perché? Perché erano dieci anni che gli operaisti agivano sul livello della fabbrica e quindi rovesciarono in brevissimo tempo il movimento studentesco verso la fabbrica. Ma dire questo non significa che il movimento studentesco italiano non lottasse per la liberazione da tutto il ciarpame che soffocava il sapere universitario e questo non significa neppure che il movimento studentesco non giocasse, non lavorasse, non agisse per liberare il piacere della vita dalle norme sociali che erano imposte agli studenti. Significa che gli studenti compresero che tutto questo lo si doveva fare con la classe operaia. Il problema era di scoprire come si potesse farlo con questa. E in breve riuscimmo a risolvere questo problema, non solo noi veneti. Qui è successa una cosa abbastanza semplice: nel settembre del ’68, ci fu un convegno di studenti a Venezia9 convocato dai compagni di Trento, il cui tema era appunto «Operai e studenti uniti nella lotta»; qui, noi di Potere operaio ci incontrammo con i compagni studenti di Roma, cioè con la maggioranza del movimento studentesco romano, e riuscimmo così a combinare un’associazione che passava attraverso le vecchie venature nazionali – chiamiamole così – del discorso operaista classico, che si era consolidato in alcune situazioni: Bologna, Firenze, Roma, in parte Milano, e poi Genova. Riuscimmo dunque a rimetterci insieme, fondamentalmente gli operai veneti e gli studenti romani, due gruppi consistenti e teoricamente omogenei attorno al discorso ed alle pratiche dell’operaismo.
7In Italia c’era allora quello strano sistema dei contratti nazionali per categoria, ci si aspettava per il ’69 quattro milioni e mezzo di operai che si sarebbero messi in lotta attorno al nuovo contratto. Queste lotte normalmente finivano quasi nel nulla, per imbrogli sindacali, ed i contratti erano trattenuti dentro una contrattazione nazionale che si adeguava alle misure del piano nazionale e della legge di bilancio. Dopodiché il contratto sindacale diventava un elemento di equilibrio, di consenso, del regime dei partiti: i sindacati ne erano i manutengoli. Si faceva dunque lottare la gente per arrivare al consenso. Un imbroglio puro e semplice. Tuttavia, il sindacato teneva su questo terreno. Si trattava quindi di rompere con il sindacato a proposito di quest’azione di mistificazione e di portare la forza studentesca sulla fabbrica in modo che sostenesse un’azione eversiva rispetto alle linee del sindacato – avendo d’altra parte costruito un contesto di obiettivi che coincidevano con quelli delle avanguardie di fabbrica. In questo modo, ci trovammo in una situazione di forza all’inizio delle lotte del ’69.
8Cominciavamo ad avere obiettivi per il ’69, mancavano tuttavia gli strumenti. La loro costruzione fu abbastanza fortunosa: fondamentalmente un giornale che chiamammo «La Classe»10, che fu organizzato nella primavera del ’69 e il cui direttore era Oreste Scalzone. Dentro questo giornale, nei primi numeri, si sostenne una parola d’ordine: «andiamo a Torino!», raccogliendo le forze che esistevano e che erano disponibili a questo progetto. Nutrirono il giornale fondamentalmente i veneti, i fiorentini, i romani, insomma le strutture che già esistevano. Quando si andò però effettivamente a Torino, verso maggio, lì i giochi diventarono pesanti. D’altronde, il sollevare il problema di andare a Torino, fu qualcosa che non nasceva semplicemente, non si sviluppava solo nelle colonie operaiste che ancora permanevano in Italia, e che si erano organizzate fino a quel momento: ci fu anche buona parte del movimento studentesco che da ogni luogo accettò questo progetto e venne a Torino.
9A Torino ci si trovò di fronte ad una classe operaia che era totalmente diversa, un altro mondo, rispetto al Veneto. A Torino c’era un mondo di meridionali mentre nella classe operaia di Porto Marghera non c’erano immigrati: era una classe operaia veneta, si parlava in veneto davanti alle porte delle fabbriche e dentro la fabbrica. Le parole d’ordine si dicevano in veneto. A Torino, invece, c’era intera l’immigrazione dal Sud Italia. Noi l’avevamo studiata: c’è un bellissimo libro che potete leggere di Sandro Serafini e Luciano Ferrari Bravo11, che erano professori con me lì a Padova, che tratta appunto il caso del Mezzogiorno italiano. Avevamo costruito un nucleo di studio su questi problemi politici che affrontavamo: l’Istituto che dirigevo a Padova era una sorta di ufficio studi del movimento. Infatti, credo che ci misero in galera tutti semplicemente perché avevamo studiato queste cose per anni e anni12.
10E dunque c’era quest’enorme migrazione che si era rovesciata sulla Fiat con comportamenti che erano di rottura nei confronti della disciplina sindacale. A questo proposito si deve leggere Vogliamo tutto di Nanni Balestrini13, un compagno di Potere operaio, perché il libro fotografò la situazione interna ed esterna della Fiat in quel periodo. Abbiamo la grande fortuna di incontrare lì un gruppo di compagni, in particolare uno, un compagno straordinario, che è Marione Dalmaviva14. Mario Dalmaviva era fisicamente un uomo grande e grosso che, con le sue braccia allargate davanti alla porta 2 della Fiat, riusciva a fermare i flussi di queste migliaia di operai che entravano. Li fermava e distribuiva volantini e urlava. Era capace di formare, e di fare attorno a sé, picchetto. Marione Dalmaviva veniva da un altro punto centrale della costruzione del ’69 operaio, che è l’Università di Sociologia di Trento, da cui venivano molti altri compagni con storie diverse. Era legato soprattutto a Sergio Bologna con il quale aveva cominciato a studiare la Fiat. Era legato anche a Vittorio Rieser, l’ultimo degli uomini dei «Quaderni rossi» che viveva a Torino e continuava a fare attività politica. E fu attorno a questi compagni che si costruì l’intervento sulla Fiat. Intervento che fu all’inizio essenzialmente di comunicazione.
11E dentro la Fiat che cosa c’era? C’era un flusso di movimenti fondamentalmente trasversali, senza leadership, un movimento di protesta immediata e improvvisa. I reparti erano divisi l’uno dall’altro e – nelle intenzioni della Fiat – non dovevano comunicare l’uno con l’altro. L’intervento esterno divenne dunque, in un primo momento, essenzialmente di comunicazione. La comunicazione era per esempio: «badate bene, ieri c’è stata la fermata alle carrozzerie, al reparto tale, tale e tale, e ieri l’altro c’è stata la fermata alla verniciatura». Così venivano messi in contatto gli operai attraverso un’informazione continua sulle lotte e sul modo di lottare: «abbiamo lottato in questa maniera, c’è stato il corteo interno, c’è stata l’autoriduzione dei ritmi»: era quello che gli operai volevano, era l’informazione esatta di quello che avveniva, assunta in quanto modo di organizzazione.
12Diciamo che in una fabbrica di massa, di linea, come la Fiat, la forma fondamentale di lotta era il corteo interno, che quando partiva da un blocco della linea (normalmente provocato dagli operai stessi) cominciava a girare per il reparto, per i reparti, facendo fuori tutti i crumiri e ripulendolo così da tutti quelli che volevano continuare a lavorare, che erano vigliacchi, e soprattutto da quelli – i veri crumiri, gli uomini di destra – che erano organizzati per resistere alla lotta. Perché non bisogna pensare che la classe operaia stesse lì ad aspettare di lottare felice. Esattamente come ci vogliono gli argomenti per lottare, ci vuole anche il piacere e la voglia di farlo. Ci vuole soprattutto la decisione, la forza di decisione. Il ruolo politico consiste nel mettere insieme questi elementi: non è una parola d’ordine astratta che arriva da qualche parte, è la capacità di essere all’interno di queste cose, del mettere insieme questi agencements15 differenti, orizzontali, ed è questo quello che avviene attorno ad una lotta, e che diventa fenomeno organizzativo operaio.
13I sindacati non sapevano più che fare, che cosa fossero gli obiettivi, come si fossero costituiti quelli che ora venivano proposti e che s’imponevano allo stesso sindacato. L’obiettivo centrale, l’egualitarismo salariale, derivava dall’obiettivo sul quale nel ’68 avevano lottato gli operai di Marghera: «5.000 lire uguali per tutti». Non so se vi rendete conto di cosa significa proporre l’egualitarismo a trentamila operai e tecnici inseriti in una gerarchia, in una disciplina di fabbrica che è pazzesca, anche in regime di operaio-massa, e soprattutto nelle industrie chimiche, dove le differenze esistono, e dove, malgrado tutto, sono assai “singolarizzate” le funzioni di lavoro anche per chi ha una qualificazione professionale pressoché identica. Introdurre, far vincere una proposta di questo genere, «5.000 lire uguali per tutti», era stata una cosa straordinaria. Perché? Perché l’aumento salariale egualitario è proposto per far saltare la struttura dell’organizzazione capitalista della fabbrica, che è interamente basata sull’individualizzazione delle funzioni e il pagamento di salari differenziati per fingere che gli operai siano differenti, che la produzione di valore non sia qualche cosa che è data dalla cooperazione, come invece avviene16. La rivendicazione egalitaria ricompone la cooperazione operaia che è elemento rivoluzionario. È attorno a queste rivendicazioni che la massa può diventare classe. Non c’è una classe sociologica: la classe è la coscienza della cooperazione, della forza che all’avanguardia deriva da questa. Marghera dunque portò quest’elemento egalitario. Alla Pirelli ci furono grandi lotte completamente diverse perché c’era un sistema di cottimo, un sistema perciò di stipendio e di salarializzazione della tâche, del tempo di lavoro. Alla Pirelli, la rottura era avvenuta a partire dai CUB (Comitati Unitari di Base)17. Ma anche lì la rivendicazione egalitaria era stata fondamentale. È così che si arrivò alla Fiat e fu questo il contributo de «La Classe» a quell’enorme lotta.
14Può stupire il fatto che accanto alle rivendicazioni salariali ne sorgessero altre, politiche ed etiche, piantate da un lato su quella che Thompson chiamava l’«economia morale18» dei lavoratori e dall’altro sulle passioni dell’insieme dei militanti che operavano con gli operai Fiat? Certamente no. Così insieme alle lotte su tempo di lavoro e salario cominciano ad affermarsi quelle sulla dignità del lavoro. Attorno a questo protagonismo sociale e politico si legò allora il tema del potere, che è il tema della riappropriazione di strumenti politici, fondamentale, centrale, e poi naturalmente altri piccoli problemi – chiamiamoli piccoli! – ad esempio quello della nocività. Bisogna ricordare infatti che le fabbriche, per gran parte, producevano in condizioni di merda – scusate la parola. I morti sul lavoro non si contavano. Questo valeva per la Fiat dove i reparti di verniciatura erano particolarmente nocivi, letali. Ed anche al Petrolchimico di Marghera, dopo queste lotte, finalmente il problema della nocività venne fuori19, e ci furono, dopo di allora, processi che sono andati avanti cent’anni, sicché, alla fine di questi processi, nessuno dei padroni responsabili finì in galera (in nome della scadenza delle prescrizioni) malgrado fossero state dimostrate le morti di tumore di centinaia di operai essenzialmente nei reparti dell’acetilene20. E alla Fiat, come abbiamo detto, nei reparti di verniciatura, era morte assicurata, e via di questo passo: quindi anche questo è un altro problema fondamentale che nacque in quegli anni.
15Ma ritorniamo alle lotte Fiat del luglio ’69. Il padrone naturalmente non cedette su quelle rivendicazioni: dichiarò la serrata. La serrata alla Fiat è del 3 luglio: «Voi scioperate, voi avete ridotto la fabbrica in condizioni in cui è impossibile comandare, impossibile produrre, quindi io chiudo la fabbrica», dichiarò Agnelli. Gli operai si accalcarono davanti alla fabbrica, si accalcò la polizia, e quando si accalcano gli operai e la polizia, scoppia lo scontro. Vi fu allora la battaglia di Corso Traiano, uno scontro in cui la polizia fu ridotta a difendersi. Marione Dalmaviva prese ad un certo punto un caterpillar con la gru davanti, e avanzò verso le camionette della polizia. Ma al di là di questo episodio, c’erano migliaia e migliaia di persone che si battevano. La battaglia continuò, attraversò la città, arrivò poi nella notte nei quartieri periferici, in particolare Nichelino, dove c’erano delle occupazioni di case che cominciavano allora, in grande quantità21. E lì cominciò l’Autunno caldo, cioè questa lotta torinese si espanse in tutte le fabbriche italiane. «La Classe» continuò a essere pubblicata fino all’assemblea degli operai e studenti che si tenne alla fine di luglio22. Si ruppe lì il fronte comune operai-studenti, appunto dentro il convegno della fine del mese, e si formarono durante il mese d’agosto due tendenze: una è Potere operaio, l’altra Lotta continua.
16L’Autunno caldo durò fino al ’73, cioè fino all’occupazione operaia della Fiat nell’aprile del ’7323. E, a proposito di quanto avvenne durante questi tre anni-quattro anni, due o tre cose sono da ricordare. La prima è l’iniziativa sindacale che condusse alla costruzione dei consigli di fabbrica. Questi consigli furono una conquista reale, rappresentavano il movimento in quanto tale, ma dopo un po’, in brevissimo tempo, vennero neutralizzati dal sindacato: la loro capacità espressiva e decisionale fu in breve annullata. In secondo luogo, vanno annoverate e riportate a questo periodo le grandi conquiste di allora, sul terreno dei diritti e su quello salariale, con tutte le implicazioni che queste ebbero sul consolidamento del Welfare, fra l’altro – assolutamente fondamentale – le 150 ore che furono concesse agli operai per andare a scuola. Ma già nel ’73 – questo va in terzo luogo osservato – l’azione sindacale operava per il contenimento dell’iniziativa operaia. Ed a questo contenimento sindacale si aggiungeva ormai la spinta repressiva/terroristica da parte dello Stato (a partire dal 12 dicembre ’69). Qui si bloccò l’azione sindacale. Nel ’73 il sindacato non volle neppure contrattare e lì ci fu l’occupazione delle fabbriche Fiat a Torino che rivelò un salto in avanti, o comunque di traverso, della classe operaia rispetto alla situazione precedente. Vale a dire che ci fu una sconfitta operaia, e davanti a questa sconfitta operaia si sviluppò tra il ’73 e il ’75 una discussione generale sull’assetto del movimento. In questa discussione apparvero evidentemente anche le alternative armate proposte dal movimento stesso. In quel momento, però, bisogna tener presente che ci fu una sconfitta generale del movimento operaio a livello globale. Gli anni ’71-’73 furono quelli del Nixon-shock, dello sganciamento del dollaro dall’oro, e dell’apertura di una fase definitivamente neoliberale. Se si vogliono sottolineare le differenze che correvano fra il ’68 di Marghera e il ’73 come momento conclusivo dell’Autunno caldo operaio, non si può non considerare questa differenza geopolitica.
17Per quanto poi riguarda il confronto fra la situazione italiana e quella francese, la cosa assolutamente centrale da notare è che il Partito comunista italiano era profondamente diverso da quello francese. Il Pci è stato partito egemone, negli anni Cinquanta e Sessanta, tutti noi militanti dei gruppi dell’Autunno caldo e nel decennio cominciato nel ’68 siamo cresciuti o dentro al Partito comunista o influenzati dal dibattito che si svolgeva nel Pci – prefigurati, per così dire, dal modello di quadro politico che il Pci aveva costruito e tramandato. Di contro, il Partito comunista francese era un partito del tutto sovietizzato, assorbito nella politica staliniana, con un controllo ideologico massiccio. Questa differenza dipende anche dalle differenze tra il quadro politico e istituzionale francese e quello italiano – essendo quello francese senz’altro più forte e costrittivo di quello italiano. Quando dico che dovevamo molto al Partito comunista italiano, lo dico perché il movimento dei «Quaderni rossi», l’operaismo stesso, nacquero in rottura con il Pci – si potrebbe dire «dentro/contro» il Pci. A lungo ci fu un rapporto con il Partito comunista, continuo anche se oppositivo e per alcuni compagni questo distacco oppositivo rappresentò un periodo breve. Si potrebbe dire che pur rompendo con il Partito comunista italiano, ci si viveva dentro. Quando si andava davanti alle fabbriche a parlare con gli operai, col cavolo che si chiedeva se l’operaio fosse iscritto al Pci o no. Si parlava di salario, si parlava delle condizioni di lavoro, e il rifiuto del partito doveva venire da lui, dall’operaio – non eravamo certo noi che lo portavamo. Faccio un esempio assolutamente classico da questo punto di vista. Un compagno che è stato per me fondamentale a Marghera, che mi ha insegnato quasi tutto quello che ho imparato sulle fabbriche, si chiamava Italo Sbrogiò24. Aveva la mia età e quando io l’ho conosciuto era membro del Comitato provinciale veneziano. Abbiamo cominciato a parlare insieme perché lui era interessato a quello che io pensavo della fabbrica ed io ero interessato a quello che lui diceva della fabbrica. Parlavamo di tutto, era un uomo libero e quindi voleva parlare con i inteletuai: parlava dialetto, Italo… Però voleva parlare con gli intellettuali. Italo è quello che ha costruito il Comitato operaio di Marghera. Si è dimesso dal Comitato provinciale del Pci con una lettera feroce25, dicendo che non sarebbe andato lì per fare il mobile, l’accessorio, che quando era nel Comitato non riusciva a parlare e via di questo passo. Tanto vale anche per altri dirigenti e fondatori dell’operaismo e dell’autonomia operaia. Prendete ad esempio Raniero Panzieri e Mario Tronti. Panzieri era stato dirigente nazionale del Psi nella sua ala sinistra, dirigente culturale, direttore della rivista centrale del Psi sempre della corrente di sinistra26. Si era mosso all’interno dell’egemonia marxista nella cultura italiana. Era poi diventato redattore di Einaudi, ancora casa editrice “ufficiale” della sinistra italiana in quegli anni. Mario Tronti, quando cominciò a militare, era segretario della sezione universitaria alla Sapienza di Roma. Ebbe una breve messa a riposo dal partito, quando dirigeva «classe operaia», ma ci rientrò nel ’66. Io ero stato segretario provinciale di una federazione socialista di sinistra – ci dicevano «appendice anarchica» del Pci – ed ero anche stato consigliere comunale a Padova. Noi siamo stati costruiti dentro la cultura comunista italiana e quindi avevamo anche un sapere della macchina politica: ci faceva schifo, bisognava distruggerla ma bisognava conoscerla. Dopo il ’69 rimane questa coscienza, c’è questa conoscenza, una conoscenza profonda anche della classe operaia. Abbiamo sempre ridacchiato in maniera pesante quando ci dicevano che c’erano degli scioperi «spontanei». Ma che cos’è uno sciopero «spontaneo»? Cosa vuol dire? Che uno la mattina, gli è andata male la notte con la moglie, va in fabbrica e pianta casino? Non sta né in cielo né in terra. Per fare sciopero bisogna almeno essere in due. Non in due, in quattro. Non in quattro, in otto. Sono cose serie, non se ne parla, scusate la battuta, solamente il lunedì mattina. Uno degli insegnamenti fondamentali del ’69, dell’Autunno caldo, è che solo le lotte sociali di massa possono abbattere il capitalismo, e che queste lotte nascono e si organizzano all’interno della moltitudine dei lavoratori. Lo spontaneismo non era altro che l’originale scoperta di questa verità da parte degli operai delle fabbriche. Tuttavia, è chiaro che queste lotte possono trovare efficacia solo quando l’organizzazione unifica le diverse frazioni del lavoro sociale. Studenti e operai uniti nella lotta, come avvenne a partire dal ’68, per almeno un decennio in Italia, è la prefigurazione della necessaria ricomposizione, oggi, del lavoro industriale e del lavoro cognitivo nella lotta per il comunismo.
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Notes de bas de page
1 Si fa qui riferimento alle lotte per il premio di produzione dell’estate 1968 a Porto Marghera durante le quali il gruppo di operai legato a Potere operaio veneto-emiliano seppe raccogliere il consenso dei lavoratori attorno a una rivendicazione di egualitarismo salariale, le «5000 lire uguali per tutti», alla quale Negri fa riferimento in seguito. Sulle lotte dell’estate 1968 a Porto Marghera si veda Porto Marghera – Montedison estate 68, a cura di Potere Operaio di Porto Marghera, Edizioni Centro G. Francovich di Firenze, 1968; G. Sbrogiò, Il lungo percorso delle lotte a Porto Marghera, in D. Sacchetto, G. Sbrogiò (a cura di), Quando il potere è operaio: autonomia e soggettività politica a Porto Marghera (1960-1980), Manifestolibri, Roma 2009, pp. 26-32; C. Chinello, Sindacato, Pci, movimenti negli anni sessanta. Porto Marghera – Venezia 1955-1970, Franco Angeli, Milano 1996, v. 2, pp. 584-665; C. Chinello, Il sessantotto operaio e studentesco a Porto Marghera, in Annale n. 2 – Sindacato e lotte dei lavoratori a Padova e nel Veneto (1945-1969), Centro Studi Ettore Luccini, Padova 1998, pp. 179-222.
2 Sull’inizio dell’esperienza operaista veneta in seno alla redazione de «Il Progresso Veneto», si vedano L. Urettini, L’operaismo veneto da «Il Progresso Veneto» a «Potere Operaio», in C. Adagio, R. Cerrato, S. Urso (a cura di), Il lungo decennio. L’Italia prima del 68, Cierre, Verona 1999, p. 173; M. Isnenghi, Fra partito e prepartito. «Il Progresso Veneto» (1961-1963), in «Classe», n. 17, 1980, pp. 221-238; M. Cesaretto, Il banco di prova della sinistra: «Il Progresso Veneto» (1959-1967), in «Venetica», n. 29, 2014, pp. 153-178.
3 Sulla storia della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova fino al Sessantotto si veda G. Simone, La facoltà cenerentola. Scienze politiche a Padova dal 1948 al 1968, Franco Angeli, Milano 2017.
4 Sulla crescita dell’organizzazione operaia autonoma di Porto Marghera rimandiamo al già citato D. Sacchetto, G. Sbrogiò (a cura di), Quando il potere è operaio cit.
5 Sull’esperienza emiliana del gruppo rinviamo alla tesi di laurea di M. Montaguti, Il lavoro della talpa. Il Circolo Panzieri, operaismo e “stagione dei movimenti” a Modena (1966-1978), dir. Marica Tolomelli, Paolo Capuzzo, Università degli Studi di Bologna, 2015.
6 G. Trotta, F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», DeriveApprodi, Roma 2008.
7 Sulla categoria di «composizione di classe» si può consultare S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma 2008.
8 Lotte dei Tecnici. Documento dell’Assemblea Permanente della SNAM Progetti. Milano ottobre-dicembre 1968, «Linea di massa. Documenti della lotta di classe», n. 2, 1969.
9 Due furono i convegni «operai-studenti» organizzati a Venezia nel ’68. Il primo si tenne alla Facoltà di Architettura l’8 e il 9 giugno e il secondo a Ca’ Foscari dal 2 al 7 settembre. Rappresentarono momenti di discussione e di dibattito fra i vari gruppi che si stavano strutturando. Si veda in particolare C. Chinello, Sindacato, Pci, movimenti cit., pp. 567-571; O. Scalzone, Biennio rosso: ’68-’69: figure e passaggi di una stagione rivoluzionaria, SugarCo, Milano 1988, pp. 108-116.
10 «La Classe. Operai e studenti uniti nella lotta. Giornale delle lotte operaie e studentesche» uscì settimanalmente dal 1° maggio al mese di agosto 1969. Dopo i primi quattro numeri di maggio a carattere ancora generale, il giornale si focalizzò sulle lotte della Fiat a partire da inizio giugno.
11 Stato e sottosviluppo: il caso del Mezzogiorno italiano, Feltrinelli, Milano 1972.
12 Si fa qui riferimento al cosiddetto «processo 7 aprile» per il quale, nel 1979, furono arrestati numerosi militanti per la loro partecipazione a Potere operaio e/o all’area dell’Autonomia operaia. Secondo il «teorema Calogero», dal nome del pubblico ministero padovano Pietro Calogero che diresse le prime indagini, queste due formazioni non sarebbero state altro che la faccia «legale» delle Brigate rosse. Dopo un complesso iter processuale, la grande maggioranza degli imputati furono assolti, dopo aver passato molti anni in detenzione preventiva o in esilio.
13 N. Balestrini, Vogliamo tutto, Feltrinelli, Milano 1971.
14 Si veda Viva Dalmaviva!, la raccolta di fumetti di Mario Dalmaviva realizzata da Oblò e dall’Archivio Multimediale Luciano Ferrari Bravo, pubblicata nel 2019.
15 Concetto sviluppato da Gilles Deleuze e Félix Guattari in Kafka, pour une littérature mineure, Minuit, Parigi 1975 e soprattutto in Mille plateaux, Minuit, Parigi 1980.
16 Come afferma Sergio Bologna, «l’egualitarismo fu concepito come strumento per scardinare il sistema disciplinare, per togliere ai cosiddetti “capi e capetti” le varie forme di ricatto e divisione» poiché «l’operaio constatava giorno per giorno la contraddizione tra il merito dichiarato a parole e l’arbitrarietà delle scelte punitive o di promozione, che poco o nulla avevano a che fare con il rendimento e l’abilità del singolo ma molto con la pratica di favoritismi e comportamenti persecutori». S. Bologna, Il “lungo autunno”. Le lotte operaie degli anni ’70, in F. Amatori (a cura di), L’approdo mancato. Economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico, Annali della Fondazione Feltrinelli, Milano 2017, pp. 111-136 (119). Sul «potenziale rivoluzionario» dell’egualitarismo salariale, si veda inoltre F. Berardi, La nefasta utopia di Potere Operaio, DeriveApprodi, Castelvecchi 1998, p. 93. Sull’importanza che ebbe nelle lotte di Porto Marghera, si veda D. Sacchetto, Esperienze di classe, in D. Sacchetto, G. Sbrogiò (a cura di), Quando il potere è operaio cit., pp. 216-217.
17 Lotta alla Pirelli. Milano giugno-dicembre 1968. documento del Comitato Unitario di Base della Pirelli, «Linea di massa. Documenti della lotta di classe», n. 1, 1968. Sui CUB, si veda anche N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro 1968-1977, Feltrinelli, Milano 2003 [1988], pp. 278-294.
18 E. P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo 18, et al., Milano 2009.
19 Sulla nocività a Porto Marghera si veda il documentario Porto Marghera: Inganno letale di Paolo Bonaldi (2002) che ripercorre le indagini e le lotte dell’operaio Gabriele Bortolozzo le quali permisero di portare davanti ai tribunali i disastri dell’industria chimica per la salute dei lavoratori e l’ambiente della laguna. Fra le opere che trattano del problema della nocività a Porto Marghera: G. Bortolozzo, L’erba ha voglia di vita. Autobiografia e storia politica tra laguna e Petrolchimico, Venezia-Mestre, Associazione Gabriele Bortolozzo, Venezia 1998; N. Benatelli, G. Favarato, E. Trevisan, Processo a Marghera. L’inchiesta sul Petrolchimico, il Cvm e le morti degli operai. Storia di una tragedia umana e ambientale, Nuova dimensione-Associazione Bortolozzo, Portogruaro 2002; G. Bettin (a cura di), Petrolkimiko. Le voci e le storie di un crimine di pace, Baldini&Castoldi, Milano 1998; G. Bettin, M. Dianese, Petrolkiller. In appendice: i documenti segreti delle aziende chimiche, Feltrinelli, Milano 2002; L. Cerasi, Perdonare Marghera. La città del lavoro nella memoria post-industriale, Franco Angeli, Milano 2007; G. Moriani, Nocività in fabbrica e nel territorio, Bertani, Verona 1974.
20 Sul processo – durato 12 anni – ai dirigenti del Petrolchimico di Porto Marghera, poi tutti assolti, si può consultare il libro del pubblico ministero incaricato dell’indagine: F. Casson, La fabbrica dei veleni. Storie e segreti di Porto Marghera, Sperling & Kupfer, Milano 2007.
21 Per un resoconto “a caldo” della cosiddetta «battaglia di Corso Traiano» si veda Battaglia a Torino, «La Classe», n. 10, 5-12 luglio 1969, p. 1 e 16. Venne anche narrata da Balestrini in Vogliamo tutto cit., pp. 193-213.
22 A. Pantaloni, 1969 L’assemblea operai studenti. Una storia dell’autunno caldo, Derive Approdi, Roma 2020.
23 Si veda N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro 1968-1977 cit., pp. 434-437.
24 I. Sbrogiò, Tuberi e pan secco. Itinerario autobiografico sociale, culturale e politico, Il Poligrafo, Venezia 1990; Id., La fiaba di una città industriale, Edizioni el squero, Venezia 2016.
25 «Cari compagni, tutta una serie di avvenimenti, un susseguirsi di atti politici del Partito mi hanno posto di fronte al problema di riconsiderare la mia milizia in esso e sono giunto alla determinazione di rassegnare le dimissioni. È una decisione che prendo con grande amarezza, ma anche con molta serenità, in quanto sono oggi profondamente convinto che il Partito si è ormai profondamente trasformato perdendo ogni sua capacità rivoluzionaria. […]» Si tratta dell’inizio della lettera dattilografata di Italo Sbrogiò del 17/2/1967. La stessa lettera autografa è stata inviata il 23/2/1967 ai «compagni della Sezione Pci Edison». Tutte e due si trovano all’Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea, Fondo Cesco Chinello, busta 24.
26 Si tratta di «Mondo operaio». Si veda in particolare S. Carpinelli, Una nuova partenza: «Mondo Operaio» di Panzieri (1957-1958), in «Classe», n. 17, 1980, pp. 63-108.
Auteur
È stato docente di Dottrina dello Stato all’Università di Padova e ha insegnato in varie università europee. Ha partecipato all’esperienza di «Quaderni rossi », «classe operaia» prima di essere tra i fondatori del gruppo extraparlamentare Potere operaio. Ha lavorato in particolare sul pensiero di Marx e Spinoza e sul concetto di Stato. È l’autore di numerose opere tra cui Descartes politico o della ragionevole ideologia (1970), La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione (1977), Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse (1979). Più recentemente, ha pubblicato con Michael Hardt, Empire (2000), Multitude (2004), Commonwealth (2009) e da ultimo Assembly (2017). Ha inoltre pubblicato, dal 2015 al 2020, i tre volumi autobiografici di Storia di un comunista.
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